Digiunare sì, digiunare no
E adesso che sappiamo quanto poco salutare sia l’ambiente in cui viviamo e quanto potenzialmente sbagliate possano essere le nostre abitudini, è il momento di capire come possiamo agire per migliorare il nostro stato di salute.
Ritengo che scegliere con cura quello che mettiamo in tavola sia un buon punto di inizio.
In un mondo in cui l’insulino resistenza e le malattie metaboliche sembrano fare più danno di una pandemia, credo che limitare l’apporto di zuccheri semplici al alto indice glicemico sia una buona strategia di attacco.
Personalmente ho sperimentato su me stesso vari modi per ricercare quello che oggi sembra di gran moda chiamare “flessibilità metabolica”. Tradotto in parole semplici significa portare il nostro organismo ad usare tutte le fonti energetiche possibili. Uno dei modi che ho sperimentato essere particolarmente efficace, è il digiuno intermittente unito ad una dieta chetogenica. Tradotto in pratica si assumono tutte le calorie del giorno in una finestra di sei ore e per le restanti diciotto ore si digiuna, idratandosi regolarmente.
Ovviamente si tratta di una pratica a cui non possiamo accedere da un giorno all’altro, pena creare più danni che benefici al nostro organismo.
Il nostro organismo è geneticamente programmato per alternare periodi in cui si mangia a sazietà a periodi più o meno lunghi di digiuno. Il problema è che la moderna alimentazione, troppo ricca di zuccheri, ci ha, per così dire, fatto dimenticare come si utilizzano le altre fonti di energia. Per “ricordarcelo” dobbiamo usare un criterio progressivo.
Ad esempio una prima strategia potrebbe essere quella di fare l’ultimo pasto solido tre o quattro ore prima di andare a letto. Nell’infinita saggezza popolare, i vecchi delle nostre campagne spesso si trovavano a cenare verso le sei o le sette della sera. Questo, da un lato garantiva un rispetto ottimale dei ritmi circadiani, consentendo di andare a letto presto e di sfruttare quella finestra oraria in cui il nostro corpo è programmato per massimizzare la produzione di ormoni e per riparare il nostro organismo. Non solo, mangiare tre o quattro ore prima di coricarsi ci mette nella condizione di arrivare a mattina con già un numero cospicuo di ore di digiuno. Assumendo come media di dormire otto ore, questo significherebbe di arrivare a mattina con già dodici ore di digiuno alle spalle. Da qui ad arrivare alle sedici prima e diciotto ore poi, la strada non è lunghissima. Certo è che il digiuno, anche se intermittente, è pratica che va approcciata con grande attenzione e consapevolezza. Non entrerò nel dettaglio delle singole tradizioni religiose e non, che consigliano questo tipo di approccio alimentare, ma mi limiterò a dire che è fine comune a tutti il concetto di purificazione. Qui, evidentemente, mi occuperò della purificazione fisica dicendo che proprio perché questo tipo di approccio alimentare è in grado di liberare molte tossine accumulate, la sua adozione va fatta in stato di buona salute e/o sotto il controllo di personale sanitario preparato in materia.
Il grasso infatti, oltre ad essere un fantastico deposito di energia, è anche un formidabile chelante. Quando nel nostro corpo entra una quantità di tossine più grande di quella che i normali sistemi di escrezione riescano a gestire, il nostro corpo “imbriglia”, per così dire, quelle in eccesso nel grasso. Questo avviene non per masochismo ma perché il nostro corpo si è evoluto, considerando le scorte di grasso come qualcosa di “sacro” da utilizzare solo in caso di reale necessità. Tutta questa “sacralità” è diventata molto meno vera da quando abbiamo un accesso alla risorsa alimentare facile e continuato. Sebbene, come ho già scritto nel mio speciale “La dieta, questa sconosciuta” ogni caloria ingerita non diventi una caloria assimilata, è pur vero che oggi nei Paesi più sviluppati, è comune avere larghissime fette di popolazione (per non dire tutta!) che vive in perenne stato di sovralimentazione. In queste condizioni il grasso diventa un buon alleato con cui fronteggiare la presenza nell’organismo di tante tossine. Da qui si capisce facilmente che sottoporre un soggetto ad una dieta chetogenica e aggiungere a questo un digiuno breve, rischia di liberare nel sangue in maniera molto rapida tutte le tossine tenute ferme dal grasso. E’ per questo motivo che, per i soggetti in non perfetta salute, si riportano in letteratura molti disturbi che vanno dal mal di testa ai disturbi intestinali.
Ottenere una buona flessibilità metabolica è, per quanto mi riguarda, un processo lungo che mal si confà alle smanie dei fanatici della prova costume. Paradossalmente però, quello appena descritto, è uno dei sistemi più usati per perdere peso rapidamente: pochi zuccheri, meno proteine, più grassi, il tutto per un totale calorico del 20% inferiore al fabbisogno giornaliero, mangiato in una finestra massima di sei/otto ore: è la formula magica per vedere scendere i numeri sulla bilancia.
E allora, se tutto fosse così semplice, dove starebbe la fregatura?
La fregatura sta nel fatto che se da una alimentazione “normale” (la classica mediterranea per intendersi) passiamo ad un regime come quello descritto, lo stress per fronteggiare questa modifica repentina ci farà produrre grandi quantità di ormoni pro-infiammatori che, non appena molleremo un attimo nelle nostre determinazioni, ci riporteranno rapidamente al punto di partenza. Nella mia esperienza è stato di fondamentale importanza un avvicinamento progressivo. Certo, una volta attivata a pieno la flessibilità metabolica, si ha molto più margine di manovra e i rischi di “contraccolpi” molto rari. Personalmente riesco a stare in OMAD (One Meal a Day) senza grossi problemi. Ovviamente è un’estremizzazione del concetto, ma serve per capire che, per quanto sembri paradossale, il nostro organismo è progettato più per questo tipo di alimentazione, piuttosto che per cinque pasti abbondanti al giorno in un lasso di tempo di sedici ore.
A supporto di quanto scritto iniziano a circolare diversi studi che dimostrano come il digiuno induca un abbassamento dei livelli di insulina. Questo, a cascata, ci pone nella condizione di usare e non accumulare grassi, stimolando l’autofagia cellulare. In particolare si è visto che il digiuno, come l’attività breve ed intensa, stimolano l’autofagia, a cui si collega poi un aumento della produzione di un enzima chiamato AMPK.
L’AMPK è responsabile in particolare della mitofagia (degradazione a fini energetici dei mitocondri non più efficienti) e della biogenesi mitocondriale (ovvero la nascita di nuovi mitocondri).
Come ho già scritto in altri post pubblicati su questo blog, negli sport di resistenza il doping anni ’90 puntava tutto sull’aumento dell’ematocrito e della capacità di trasporto dell’ossigeno dai polmoni alle cellule. Questo offriva un innegabile aumento delle prestazioni e delle capacità di recupero, ma trascurava un fattore cruciale ovvero che la cilindrata, e di conseguenze la prestazione dell’atleta, era legata più a quanto ossigeno era in grado di “bruciare” piuttosto che a quanto ossigeno era in grado di “trasportare”.
Personalmente ho condotto test (FTP) di resistenza con valori di ematocrito spostati nella parte più bassa del range di normalità, ottenendo di fatto risultati di potenza media migliori di quando il mio ematocrito era nella metà alta del range.