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Salute o malattia? A noi la scelta! – parte 4

Digiunare sì, digiunare no

E adesso che sappiamo quanto poco salutare sia l’ambiente in cui viviamo e quanto potenzialmente sbagliate possano essere le nostre abitudini, è il momento di capire come possiamo agire per migliorare il nostro stato di salute.
Ritengo che scegliere con cura quello che mettiamo in tavola sia un buon punto di inizio.
In un mondo in cui l’insulino resistenza e le malattie metaboliche sembrano fare più danno di una pandemia, credo che limitare l’apporto di zuccheri semplici al alto indice glicemico sia una buona strategia di attacco.

Personalmente ho sperimentato su me stesso vari modi per ricercare quello che oggi sembra di gran moda chiamare “flessibilità metabolica”. Tradotto in parole semplici significa portare il nostro organismo ad usare tutte le fonti energetiche possibili. Uno dei modi che ho sperimentato essere particolarmente efficace, è il digiuno intermittente unito ad una dieta chetogenica. Tradotto in pratica si assumono tutte le calorie del giorno in una finestra di sei ore e per le restanti diciotto ore si digiuna, idratandosi regolarmente.
Ovviamente si tratta di una pratica a cui non possiamo accedere da un giorno all’altro, pena creare più danni che benefici al nostro organismo.
Il nostro organismo è geneticamente programmato per alternare periodi in cui si mangia a sazietà a periodi più o meno lunghi di digiuno. Il problema è che la moderna alimentazione, troppo ricca di zuccheri, ci ha, per così dire, fatto dimenticare come si utilizzano le altre fonti di energia. Per “ricordarcelo” dobbiamo usare un criterio progressivo.
Ad esempio una prima strategia potrebbe essere quella di fare l’ultimo pasto solido tre o quattro ore prima di andare a letto. Nell’infinita saggezza popolare, i vecchi delle nostre campagne spesso si trovavano a cenare verso le sei o le sette della sera. Questo, da un lato garantiva un rispetto ottimale dei ritmi circadiani, consentendo di andare a letto presto e di sfruttare quella finestra oraria in cui il nostro corpo è programmato per massimizzare la produzione di ormoni e per riparare il nostro organismo. Non solo, mangiare tre o quattro ore prima di coricarsi ci mette nella condizione di arrivare a mattina con già un numero cospicuo di ore di digiuno. Assumendo come media di dormire otto ore, questo significherebbe di arrivare a mattina con già dodici ore di digiuno alle spalle. Da qui ad arrivare alle sedici prima e diciotto ore poi, la strada non è lunghissima. Certo è che il digiuno, anche se intermittente, è pratica che va approcciata con grande attenzione e consapevolezza. Non entrerò nel dettaglio delle singole tradizioni religiose e non, che consigliano questo tipo di approccio alimentare, ma mi limiterò a dire che è fine comune a tutti il concetto di purificazione. Qui, evidentemente, mi occuperò della purificazione fisica dicendo che proprio perché questo tipo di approccio alimentare è in grado di liberare molte tossine accumulate, la sua adozione va fatta in stato di buona salute e/o sotto il controllo di personale sanitario preparato in materia.

Il grasso infatti, oltre ad essere un fantastico deposito di energia, è anche un formidabile chelante. Quando nel nostro corpo entra una quantità di tossine più grande di quella che i normali sistemi di escrezione riescano a gestire, il nostro corpo “imbriglia”, per così dire, quelle in eccesso nel grasso. Questo avviene non per masochismo ma perché il nostro corpo si è evoluto, considerando le scorte di grasso come qualcosa di “sacro” da utilizzare solo in caso di reale necessità. Tutta questa “sacralità” è diventata molto meno vera da quando abbiamo un accesso alla risorsa alimentare facile e continuato. Sebbene, come ho già scritto nel mio speciale “La dieta, questa sconosciuta” ogni caloria ingerita non diventi una caloria assimilata, è pur vero che oggi nei Paesi più sviluppati, è comune avere larghissime fette di popolazione (per non dire tutta!) che vive in perenne stato di sovralimentazione. In queste condizioni il grasso diventa un buon alleato con cui fronteggiare la presenza nell’organismo di tante tossine. Da qui si capisce facilmente che sottoporre un soggetto ad una dieta chetogenica e aggiungere a questo un digiuno breve, rischia di liberare nel sangue in maniera molto rapida tutte le tossine tenute ferme dal grasso. E’ per questo motivo che, per i soggetti in non perfetta salute, si riportano in letteratura molti disturbi che vanno dal mal di testa ai disturbi intestinali.

Ottenere una buona flessibilità metabolica è, per quanto mi riguarda, un processo lungo che mal si confà alle smanie dei fanatici della prova costume. Paradossalmente però, quello appena descritto, è uno dei sistemi più usati per perdere peso rapidamente: pochi zuccheri, meno proteine, più grassi, il tutto per un totale calorico del 20% inferiore al fabbisogno giornaliero, mangiato in una finestra massima di sei/otto ore: è la formula magica per vedere scendere i numeri sulla bilancia.

E allora, se tutto fosse così semplice, dove starebbe la fregatura?
La fregatura sta nel fatto che se da una alimentazione “normale” (la classica mediterranea per intendersi) passiamo ad un regime come quello descritto, lo stress per fronteggiare questa modifica repentina ci farà produrre grandi quantità di ormoni pro-infiammatori che, non appena molleremo un attimo nelle nostre determinazioni, ci riporteranno rapidamente al punto di partenza. Nella mia esperienza è stato di fondamentale importanza un avvicinamento progressivo. Certo, una volta attivata a pieno la flessibilità metabolica, si ha molto più margine di manovra e i rischi di “contraccolpi” molto rari. Personalmente riesco a stare in OMAD (One Meal a Day) senza grossi problemi. Ovviamente è un’estremizzazione del concetto, ma serve per capire che, per quanto sembri paradossale, il nostro organismo è progettato più per questo tipo di alimentazione, piuttosto che per cinque pasti abbondanti al giorno in un lasso di tempo di sedici ore.

A supporto di quanto scritto iniziano a circolare diversi studi che dimostrano come il digiuno induca un abbassamento dei livelli di insulina. Questo, a cascata, ci pone nella condizione di usare e non accumulare grassi, stimolando l’autofagia cellulare. In particolare si è visto che il digiuno, come l’attività breve ed intensa, stimolano l’autofagia, a cui si collega poi un aumento della produzione di un enzima chiamato AMPK.
L’AMPK è responsabile in particolare della mitofagia (degradazione a fini energetici dei mitocondri non più efficienti) e della biogenesi mitocondriale (ovvero la nascita di nuovi mitocondri).

Come ho già scritto in altri post pubblicati su questo blog, negli sport di resistenza il doping anni ’90 puntava tutto sull’aumento dell’ematocrito e della capacità di trasporto dell’ossigeno dai polmoni alle cellule. Questo offriva un innegabile aumento delle prestazioni e delle capacità di recupero, ma trascurava un fattore cruciale ovvero che la cilindrata, e di conseguenze la prestazione dell’atleta, era legata più a quanto ossigeno era in grado di “bruciare” piuttosto che a quanto ossigeno era in grado di “trasportare”.

Personalmente ho condotto test (FTP) di resistenza con valori di ematocrito spostati nella parte più bassa del range di normalità, ottenendo di fatto risultati di potenza media migliori di quando il mio ematocrito era nella metà alta del range.

 

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Salute o malattia? A noi la scelta! – parte 3

alimentazione e stili di vita

Alimentazione e Stili di Vita

Alterazione del microbioma

L’idea che le cose che mangiamo facciano parte di noi non appena ne deglutiamo un boccone, è una delle idee più diffuse ed inesatte che mi sia capitato di riscontrare parlando con le persone che conosco.

L’apparato digerente che inizia con la bocca e termina con l’ano, va immaginato come un lungo tubo in cui i momenti di scambio tra il “fuori” ed il “dentro” sono molto limitati.

Tutto quello che sta dentro a questo “tubo” è il frutto di una evoluzione durata milioni di anni, in cui abbiamo imparato a convivere e collaborare vantaggiosamente con una serie pressoché sterminata di microorganismi.

Giusto per dare un’idea approssimativa, stiamo parlando di trentamila miliardi di batteri ed un milione di miliardi di virus batteriofagi del peso totale approssimativo di qualche chilogrammo.

Detto in una parola il nostro microbioma è uno dei più potenti alleati per la nostra buona salute.

Continuamente insidiato da diete ricche di carboidrati, antibiotici e altri farmaci dannosi per l’intestino come gli inibitori della pompa protonica, il nostro microbioma finisce per indebolirsi, permettendo ai batteri patogeni di prendere il sopravvento e di aprire le porte ad infezioni e malattie di varia natura.

Inquinamento elettromagnetico

Da non sottovalutare per una salute ottimale anche l’inquinamento elettromagnetico a cui siamo sottoposti quotidianamente.

L’utilizzo di forni a microonde, fornelli ad induzione, phon e altri elettrodomestici di uso comune, genera campi magnetici a cui ci esponiamo quotidianamente senza alcun tipo di riflessione. Se è vero che l’intensità del campo magnetico prodotto da questi elettrodomestici a 20-30 cm di distanza è ben al di sotto del limite previsto dalla normativa, è pur sempre vero che il benessere ha di fatto “elettrificato” quasi tutte le attività domestiche.

Quando si parla di Elettrosmog e di campi magnetici potenzialmente dannosi per la salute, il principale imputato è oggi lo smartphone.

Viviamo ormai con gli smartphone a meno di un metro di distanza dal nostro corpo per gran parte della giornata. Le nostre case sono nella quasi totalità dotate di sistemi di connessione wireless e questo ci permette di usare sempre più questi oggetti in sostituzione di PC e tablet.[1]

Sebbene siano dati ancora parziali e tutti da confermare, sembra che uno degli effetti della continua esposizione a campi elettromagnetici possa determinare un aumento del calcio intracellulare che, una volta trasferito all’interno della cellula con l’aumento della segnalazione cellulare dello stesso, determinerebbe una aumentata possibilità di danno al DNA cellulare[2].

Tecnicamente, se la quantità di calcio nella cellula è elevato, aumentano anche i livelli di ossido e perossido d’azoto. Questi ultimi, interagendo tra di loro, formano perossinitriti che danneggiano mitocondri e DNA cellulare.

Ovviamente si tratta di ipotesi da approfondire e confermare con ulteriori studi scientifici ma, nel dubbio, mi pare saggio usare questi utili strumenti che migliorano qualità della vita e comunicazione, solo quando ne abbiamo veramente bisogno.

Orari pazzi

E’ ormai abbastanza chiaro che sono molti i fattori che determinano il nostro benessere. Nessuno di questi è in grado, da solo, di determinare il nostro stato di salute, ma dovremmo essere consapevoli che tutti insieme fanno la differenza.

Ecco allora che ci troviamo a parlare di orari e a capire come anche la cosa più “salutare” del mondo possa, nel momento sbagliato, diventare poco utile per il raggiungimento del nostro benessere generale.

Iniziano a circolare diversi studi[3] in cui si evidenzia come fette sempre più consistenti della popolazione dei paesi occidentali consumi percentuali prossime al 35% dell’introito calorico quotidiano poche ore prima di andare a letto, ovvero quando l’organismo ne avrebbe meno necessità.

Mangiare molto spesso per un lasso di tempo lungo (tipicamente dalle 07:00 AM alle 22:00 PM), lascia di fatto il nostro organismo in una condizione di affaticamento perenne dovuto alla digestione degli alimenti.

Con buona pace dei bodybuilder che temono di andare in catabolismo se non mangiano ogni due ore, il corpo umano è fatto per osservare lunghi periodi di digiuno duranti i quali si purifica e si auto ripara.

L’eccesso di nutrienti mette il nostro corpo nella condizione di “rilassatezza” che deriva dal non dover attivare tutti quei meccanismi di sopravvivenza tipici invece della nostra storia di cacciatori-raccoglitori che non avevano accesso continuo e massivo alle risorse alimentari.
Uno di questi processi è l’apoptosi cellulare [4]ovvero la morte programmata di alcune nostre cellule per il mantenimento in salute dei nostri tessuti. A questo proposito è bene sapere che l’apoptosi si avvia in presenza di ormoni ed enzimi che si producono maggiormente in condizioni di digiuno.

Più in generale mangiare nelle ore serali di poco precedenti il riposo notturno porta a:

  • Danneggiare i mitocondri che sono costretti a lavorare nel momento in cui sarebbe necessario per loro un po’ di riposo.
  • Alterare la produzione di alcuni ormoni. Il mancato abbassamento della nostra temperatura corporea (quando digeriamo produciamo calore), influenza negativamente la secrezione di alcuni ormoni che, tipicamente, si avvia quando il nostro organismo si “raffredda”.
  • Ridurre la flessibilità metabolica perché il frequente apporto di nutrienti (di cui una quota è sempre costituito da carboidrati) impedisce l’attivazione, per sua natura lenta, del metabolismo lipidico.

A molti suonerà strano ma alcuni nostri organi, l’intestino in primis, hanno bisogno di finestre di almeno dodici ore per potersi auto riparare[5].

[5] Ph.d. Panda, Satchin “The Circadian Code: Lose Weight, Supercharge Your Energy, and Transform Your Health from Morning to Midnight”, Rodale Pr; 1 edizione (12 giugno 2018).

di

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Salute o malattia? A noi la scelta! – parte 2

alimentazione e malattie

Alimentazione e Malattie


Omega 3 e Omega 6

Quando si parla di Alimentazione e Malattie ci sono molti aspetti da valutare.

Ad esempio il rapporto tra Omega3 e Omega 6. Per questi due acidi grassi, entrambi utili ai normali processi fisiologici, il rapporto ottimale dovrebbe stare tra 1:1 e 1:5.

Questo significa che, nella peggiore delle ipotesi, per ogni grammo di Omega 3 ce ne dovrebbero essere al massimo cinque di Omega 6.

Nell’alimentazione occidentale moderna questo rapporto oscilla mediamente tra 1:20 e 1:50. Ora, poiché gli Omega 6 promuovono nell’organismo i processi infiammatori, va da se’ che avere un rapporto così sbilanciato mette il nostro organismo in uno stato di perenne infiammazione.

Gli Omega 6 sono grassi chimicamente instabili e molto vulnerabili ai processi ossidativi. Ora, anche senza addentrarsi troppo nei dettagli chimici, è del tutto evidente che un po’ di infiammazione è fisiologica ed utile. Immaginate cosa succederebbe ad una ferita se non si attivasse quella benefica infiammazione locale che accelera il metabolismo per favorire tutti i processi di riparazione dei tessuti. Il problema si genera quando abbiamo una infiammazione “sistemica” che non serve a niente se non ad esporci a grandi quantità di radicali liberi, che a loro volta attaccano le strutture del nostro organismo.

E i grassi saturi?

L’idea che i grassi saturi debbano sempre e comunque fare male e che sia meglio bandirli dalla dieta a tutto vantaggio di carboidrati (magari di origine cerealicola), ci porta al secondo grande problema odierno ovvero all’insulino-resistenza.

Escludere dalla tavola i grassi ci porta in molti casi a mangiare più del necessario e con un elevato apporto di carboidrati ad alto indice glicemico, costringendo così il nostro organismo a produrre grandi quantità di insulina per abbassare il livello di glucosio nel sangue (altrimenti dannoso per le cellule).

L’eccessiva quantità di insulina “desensibilizza” per così dire i recettori delle cellule, che per “aprirsi” e far entrare il glucosio hanno bisogno di stimoli sempre più forti. Il problema si complica quando il pancreas non è più in grado di produrre tutta questa insulina, lasciando di fatto un sacco di glucosio in circolazione.

Ma se abbiamo appena detto che troppo glucosio nel sangue è tossico, la domanda nasce spontanea: dove va a finire il glucosio in eccesso? Si dà il caso che l’insulina abbia tra le sue funzioni anche quella di agevolare l’ingresso dei trigliceridi negli adipociti (le cellule che contengono grasso) e siccome i trigliceridi si formano dall’unione di una molecola di glicerolo con tre acidi grassi per permettere al glucosio in eccesso nel sangue di essere trasformato in qualcosa di “stoccabile” (diverso dal glicogeno), è del tutto evidente che si ingrassa molto più facilmente mangiando zuccheri che non grassi.

Inquinamento alimentare

Come se non bastassero industrializzazione ed impoverimento nutritivo degli alimenti, a rendere le cose ancora più difficili ci si è messo anche l’uso indiscriminato di fertilizzanti sintetici, additivi alimentari e pesticidi.

Se è vero infatti che le norme dei paesi più sviluppati prevedono limiti piuttosto bassi di tutte queste sostanze, è altrettanto vero che non è l’esposizione episodica ad una sostanza tossica che costituisce il problema. I livelli massimi fissati per legge di queste sostanze sono così bassi che nessuno rischia niente mangiandoli una sola volta. Il problema vero è l’esposizione costante e incrociata a tutte queste sostanze chimiche.

Personalmente credo che mangiare quotidianamente cereali di produzioni dove si usa glifosato, non sia la migliore strategia per ottenere un livello di salute ottimale. Per tutta onestà non voglio neppure passare come un “integralista dell’alimentazione”, in quanto sono ugualmente convinto che un bel piatto di spaghetti alla amatriciana non abbiano mai ucciso nessuno (di base in buona salute!).

Credo invece che la salute ottimale si costruisca pasto dopo pasto nel lungo periodo, attraverso la consapevolezza che nei nostri cibi ci sono sempre meno micronutrienti e sempre più sostanze di sintesi chimica che spaziano dai residui di fertilizzanti chimici e diserbanti, per finire con conservanti, coloranti e additivi per esaltare caratteristiche che gli alimenti non hanno più.

(Continua…)

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Salute o malattia? A noi la scelta! – parte 1

perché ci ammaliamo

Perché ci ammaliamo?

Mi sono spesso interrogato sul perché oggigiorno, nonostante il grande miglioramento delle condizioni socio-sanitarie, non si sia registrato un uguale miglioramento della qualità della salute individuale. Ci ammaliamo sempre di più e, sebbene l’aspettativa di vita si allunghi sempre, la qualità della stessa nelle ultime due-tre decadi di esistenza è tutt’altro che ottimale.

Credo che la medicina occidentale sia diventata formidabilmente efficiente in tutto quello che concerne la diagnosi strumentale di una patologia (abbiamo oggi strumentazioni inimmaginabili solo 30-40 anni fa).

Allo stesso modo la chirurgia è in grado di cose a dir poco strabilianti. Allora perché ci ammaliamo?

Infatti nonostante questo, la medicina occidentale è ancora in affanno nella cura delle malattie croniche (ad oggi prima causa di morte nei paesi maggiormente sviluppati), per le quali tende più frequentemente alla soppressione dei sintomi piuttosto che alla ricerca della causa primaria. Che si tratti di patologie cardiovascolari, diabete di tipo 2 o semplice stanchezza cronica, l’impatto sulla qualità della vita è spesso drammatico, come drammatico è l’effetto sui costi del sistema sanitario che deve assistere questi malati.

Sopprimere il sintomo o rimuovere le cause?

Sopprimere il sintomo non significa necessariamente rimuovere le cause che generano il disturbo. Allo stesso modo cercare la cura per la causa primaria dei nostri disturbi, non significa bandire i farmaci affidandosi a pratiche dalla dubbia efficacia terapeutica.

Credo però che sia un ragionamento di buonsenso quello di riappropriarsi di un benessere di fondo che rimuova, quanto più naturalmente possibile, le cause delle nostre infiammazioni e patologie.

Ecco che l’alimentazione diventa (per me almeno) la principale alleata per raggiungere questo obiettivo. Per poterlo fare in maniera efficace bisogna però essere consapevoli di un po’ di cose utili a dribblare eventuali ostacoli.

Il contesto in cui viviamo è quello industriale e trascurarlo sarebbe un errore grossolano. Purtroppo la produzione industriale vede nell’aumento della quantità a parità di costo, una delle sue direttrici di sviluppo principali. Questo ovviamente non significa che non esistano a livello industriale eccellenze alimentari degne di nota, ma quello che posso testimoniare con la mia esperienza è che a livello industriale è quasi sempre la quantità ad avere la meglio sulla qualità.

In soldoni significa che quello che mangiamo oggi, sebbene fornisca calorie in abbondanza, è spesso “povero” di tutti quei micronutrienti così utili alla nostra salute. Vediamo insieme alcuni esempi facilmente ritrovabili in letteratura.

(Continua…)

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Supercompensazione: la chiave del miglioramento

Ho già scritto di allenamenti ad elevata intensità e di allenamenti ad elevato volume ma in ogni caso l’elemento che non può essere escluso quando si programma un allenamento è il capire se l’allenamento che abbiamo ideato è adatto a noi e ci permette di sfruttare al meglio la curva di supercompensazione.

Supercompensazione definizione: scopriamo cosa è

Vediamo con l’aiuto di Wikipedia una definizione di supercompensazione.

In termini più semplici permettere al nostro corpo di supecompensare significa dargli il tempo necessario affinché tutte le strutture (muscolari in primis) abbiano il tempo per recuperare e migliorare la proprie performance.

Supercompensazione e Allenamento

L’allenamento infatti è per il nostro corpo (che tende all’omeostasi come tutti i sistemi biologici) un momento di grande stress. Può sembrare strano ma mentre ci alleniamo le nostre prestazioni stanno peggiorando e non soltanto per la sensazione di fatica che proviamo ma perché l’intensità dello stimolo a cui ci stiamo sottoponendo erode via via le nostre capacità fisiologiche. Basta pensare ad un ciclista che per poter scattare in continuazione consuma progressivamente le sue scorte di glicogeno arrivando al punto di non avere più risorse per poter esprimere una prestazione massimale.

Il nostro organismo si difende dallo stress migliorando progressivamente le proprie capacità. Idealmente, se identifichiamo come punto “0” il punto da cui iniziamo l’allenamento, alla fine di quest’ultimo saremo al punto “-5”. Il nostro organismo attraverso un gran numero di processi fisiologici recupererà il suo svantaggio fino a portarsi di nuovo al punto “0” e, sarà a questo punto che i processi fisiologici che fino a quel momento hanno riportato in equilibrio (ovvero omeostasi) le nostre capacità continueranno la loro attività portando il nostro organismo al punto ”+5”.

La curva di supercompensazione

Dopo il raggiungimento della supercompensazione il corpo, che è programmato per ottimizzare il proprio dispendio energetico torna lentamente al suo “0” iniziale.

Da questo capite che per migliorare nella performance è di fondamentale importanza sfruttare quanto più possibile la curva di supercompensazione, se infatti il secondo stimolo allenante iniziasse quando ci troviamo nel punto “+5” l’effetto del nuovo stress potrebbe farci scendere al punto “0” anziché al punto “-5” come durante il primo allenamento. Ora, poiché tra il minimo raggiunto nel punto di massimo stress ed il massimo raggiunto con la supercompensazione ci sono nel nostro esempio 10 punti, risulterà evidente che se il processo di recupero e supercompensazione parte nel secondo allenamento dal punto “0” (anziché al punto “-5”) la nostra supercompensazione ci porterà al punto “+ 10”. Procedendo così ci troveremo ben presto a valori di prestazione ben più elevati di quelli di partenza.

Tutto molto bello e stimolante se non fosse per il fatto che non è così meccanico individuare il giusto stress allenante e individuare la finestra temporale in cui si raggiunge il punto massimo della supercompensazione. Inoltre, se è vero che più stress in generale significa più supercompensazione si deve stare molto attenti affinché uno stress allenante non si trasformi in un danno fisiologico (esempio sviluppo della sindrome da superallenamento) o, peggio, in un trauma.

Pensiamo ad esempio ad un sollevatore di pesi già ben allenato, le sue capacità fisiche gli permetteranno di affrontare allenamenti molto stressanti ma il rischio nel suo caso è che sfortunatamente non tutte le nostre componenti fisiologiche supercompensano nello stesso modo e con gli stessi tempi.

Le strutture tendinee ad esempio, essendo poco vascolarizzate, hanno tempi di adattamento ben più lunghi dei nostri muscoli. Ecco che non è infrequente trovare atleti esperti che incorrono con una certa frequenza in infortuni quali stiramenti e strappi muscolari. In questi casi questo tipo di infortuni è molto spesso a carico delle strutture tendinee che, essendo l’anello più debole della catena, non hanno avuto il tempo necessario per adattarsi agli accresciuti stimoli dati dall’allenamento. Un buon allenatore, preparatore o coach dovrà tenere in considerazione tutte le componenti stimolate dal gesto atletico del proprio assistito e modellare il programma di allenamento prevedendo oltre che la giusta alternanza tra allenamento e riposo anche specifiche sessioni di adattamento per le strutture agoniste coinvolte nel gesto atletico.

La supercompensazione nella preparazione atletica

Progettare la preparazione atletica di una squadra di basket o pallavvolo pensando che il miglioramento delle performance di salto derivino solo da un miglioramento muscolare sarebbe un clamoroso errore.
Sfortunatamente muscoli e tendini non supercompensano nello stesso periodo e se per i primi è pensabile di dispensare stimoli allenanti ogni 36-48 ore per i secondi sono necessari tra 4 e i 6 giorni per il pieno recupero.

In particolare, vista la limitata capacità di crescita delle strutture tendinee sarebbe meglio parlare di adattamento allo stimolo più che di supercompensazione. Sofismi a parte la cosa importante da sapere è che non esiste una curva di miglioramento infinita e che un buon programma di allenamento deve prevedere l’alternanza di periodi (detti mesocicli) più intensi e periodi di recupero (le famose settimane di “scarico”). Allo stesso modo un bravo preparatore, pur tenendo presente il vostro gesto atletico, varierà da mesociclo a mesociclo lo stimolo allenante. Questo si rende necessario in quanto il nostro organismo fatica un bel po’ per supercompensare e quindi, appena può cerca di specializzarsi per fare lo stesso esercizio con il minor dispendio di energie possibile.

Sebbene suoni strano considerate che nell’atleta professionista è su questa leva che si ottengono i miglioramenti prestazionali migliori. Ecco quindi che se siamo lontani da una competizione il nostro corpo si formerà tanto meglio quanto saremo in grado di stimolarlo da angolazioni diverse. Ben inteso, questo non significa che ogni seduta di allenamento sarà una cosa diversa ma che nell’organizzazione generale dell’allenamento i mesocicli dovranno prevedere stimoli diversi pur lasciando invariato il target di allenamento. Ipotizzando di voler allenare in maniera specifica un atleta sulla componente della forza per due mesocicli consecutivi avrà poco senso riproporre dopo una pausa di scarico un secondo mesociclo identico al primo.

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Tipi di Proteina: ecco cosa devi sapere!

A fine allenamento capita spesso vedere negli spogliatoi chi, più o meno furtivamente, tira fuori dall’armadietto uno shaker pieno di proteine in polvere pronte per essere diluite con acqua.
Sono fermamente convinto che a parte atleti di punta che hanno necessità proteiche particolarmente elevate, una persona che si allena regolarmente anche 3-4 volte a settimana, stando un minimo attenta all’alimentazione, possa fare tranquillamente a meno dell’integrazione proteica.
Chiarito come la penso sull’argomento cercherò nel mio piccolo di fare un po’ di chiarezza sui vari tipi di proteina e sul loro impiego migliore.

Proteine del siero di latte

Partiamo dalle proteine del siero del latte che, con un valore biologico molto elevato (104), sono probabilmente tra le più vendute sul mercato. In virtù di questo successo i produttori hanno progressivamente diversificato la loro offerta proponendo alcune varianti.

Le proteine del siero del latte concentrate vengono ottenute per ultrafiltrazione e sono a tutt’oggi tra le più diffuse sugli scaffali di integratori. Il loro contenuto proteico varia dal 75% all’85% ma a fronte di un apporto di grassi intorno a 5%. La loro buona qualità le rende quindi un best-buy.

Le proteine del siero di latte isolate sono ottenute principalmente da due processi, la microfiltrazione a flusso incrociato (CFM) e lo scambio ionico (IE). Questi metodi permettono di ottenere polveri con concentrazioni proteiche comprese tra l’85-95% di proteine. Questi processi inoltre garantiscono anche una ridotta presenza di grassi e carboidrati, l’assenza di colesterolo (presente invece nelle concentrate) e ridottissime quantità di lattosio (tra 0,1 e 0,3 %).

Questo tipo di proteine potrebbero quindi essere utilizzate (con le dovute cautele) anche da persone intolleranti al lattosio. Purtroppo però un filtraggio così “aggressivo” finisce per denaturare il prodotto rendendolo molto più povero anche in termini di apporto minerale (calcio in particolare). Addirittura nell’estrazione per scambio ionico vengono perse alcune importanti frazioni peptidiche che al contrario si “salvano” nel processo per microfiltrazione.

Personalmente preferisco le microfiltrate perché pur offrendo quote proteiche un po’ più basse rispetto alle proteine del siero del latte isolate a scambio ionico, le prime offrono quote più alte delle frazioni peptidiche bio-attive che alcuni studi indicano come capaci indurre e supportare i processi di costruzione muscolare.

Infatti, come nelle proteine ottenute con lo scambio ionico anche nell’isolato proteico ottenuto per microfiltrazione la quota proteica è normalmente superiore al 90%, mentre le percentuali di lattosio e grassi sono inferiori all’1%.

Il fatto quindi che le proteine del siero del latte isolate con la microfiltrazione offrono un migliore profilo amminoacidico. In particolare le proteine isolate mediante microfiltrazione hanno un maggior contenuto di calcio e quote sensibilmente più basse di sodio (responsabile in parte della maggiore ritenzione di liquidi).

Proteine della caseina

Le proteine della caseina hanno un valore biologico più basso (77) rispetto alle proteine del siero del latte.

Tecnicamente la caseina è il caglio che si ottiene dalla divisione dal siero ed ha la caratteristica di assorbire molta acqua. Non è un caso infatti che questo tipo di proteine siano usate come base dei cosiddetti pasti sostitutivi perché il maggior volume ottenibile con quest’ultime induce con più facilità senso di sazietà.

Inoltre le proteine della caseina avendo una struttura molecolare più complessa sono di più lenta digestione. Per questo motivo le proteine della caseina vengono usate quando si desidera un assorbimento lento e prolungato. È il caso per esempio di coloro che usano questo tipo di proteine nello spuntino pre-nanna per garantirsi un apporto proteico costante durante tutta la notte.

Personalmente ho sperimentato questo tipo di alimentazione e se da un lato è vero che l’apporto proteico a lento rilascio garantito dalle proteine della caseina offre al corpo i “mattoni” per costruire durante la notte nuovo tessuto muscolare è anche vero che queste (come le altre) proteine pur non contenendo quantità rilevanti di zuccheri inducono un rilascio di insulina (non solo di glucagone!), ormone che interferisce con la normale produzione di GH e Testosterone.

In altre parole avendo un elevato apporto proteico durante la notte abbiamo il materiale da costruzione ma ci mancheranno i costruttori (ovvero gli ormoni). Il GH in particolare si massimizza quando la glicemia è bassa e il corpo in stato di digiuno. Personalmente infatti ho messo su più massa muscolare quando ho seguito periodi di digiuno intermittente piuttosto che periodi in cui ho sperimentato gli spuntini pre-nanna (ma di questo parlerò in un altro articolo).

Proteine dell’uovo

Le proteine dell’uovo hanno un’ottima qualità e contengono uno spettro amminoacidico ottimale per l’essere umano.

Il loro valore biologico (100) sebbene più basso è prossimo a quello delle proteine del siero del latte, facendo delle proteine d’albume d’uovo la scelta ideale per tutti coloro che non tollerano i derivati del latte.

Altro dato interessante è dato dal tempo di digestione di queste proteine che si pone a metà strada tra le sieroproteine (più veloci) e le caseine (più lente); non solo, il particolare spettro amminoacidico conferisce a queste proteine un ottimo potere saziante.

I duri e puri del bodybuilding ne consigliano l’uso dopo l’allenamento in quanto sembra che le buone quantità di arginina presenti nello spettro amminoacidico aumenti, in associazione con i carboidrati, i livelli di insulina.

Proteine di soia

Ho lasciato per ultimo le proteine di soia in quanto oltre ad avere un più basso valore biologico potrebbero contenere alcuni antinutrienti, compresi gli inibitori della tripsina, responsabile della digestione delle proteine.

Anche le significative quantità di fitati presenti nella soia mi lasciano un po’ scettico sulla qualità di questo tipo di prodotto. I fitati infatti, legandosi a minerali come calcio, magnesio, manganese, zinco, rame e ferro, ne riducono l’assorbimento.

Inoltre le proteine della soia tendono ad assorbire molta acqua ed aumentare di volume e a non essere sempre di facile solubilità.
Per contro (e per onestà intellettuale) molti vegetariani e vegani che le utilizzano citano spesso studi secondo cui la presenza di genisteina ed altri isoflavoni avrebbero effetti benefici sulla salute.

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Obiettivi Ecologici: cosa sono e perché sono importanti

Laozi (più conosciuto come Lao Tse) affermava: “Colui che conosce il proprio obiettivo si sente forte; questa forza lo rende sereno; questa serenità assicura la pace interiore; solo la pace interiore consente la riflessione profonda; la riflessione profonda è il punto di partenza di ogni successo.”

Si potrebbe riassumere nella frase di questo saggio cinese il senso dell’articolo che state leggendo. Avere un obiettivo ecologico è il primo dei mattoni che un atleta deve posare per poter sperare di raggiungere una qualche forma di successo.

Obiettivi Ecologici e Allenamento

obiettivi ecologici

Ho domandato spesso ad atleti di varia estrazione perché facessero quello che facevano. Una buona metà mi ha colpito e stimolato a riflettere l’altra metà, nel migliore dei casi mi ha spiazzato per non dire spaventato. “Perché corri a piedi?” – “Perché ho sempre corso!”.
In quest’ottica si creano aberrazioni di ogni genere, dalle persone che si assentano senza autorizzazione dal posto di lavoro per allenarsi, alle persone che non smettono mai di allenarsi o ancora alle persone che si dopano per vincere corse amatoriali.

E alla successiva domanda “Perché lo fai?” la risposta ancora più sconcertante è “Boh!”.

Avere un obiettivo chiaro dunque ci aiuta a fare il nostro meglio e ad ottenere dalle circostanze il massimo aiuto possibile. Un obiettivo chiaro è come la navigazione con carta e bussola.
In più, personalmente, credo che un obiettivo debba essere ecologico ovvero rispettare le altre “componenti” della nostra vita (salute, affetti e lavoro, etc). Vincere un campionato nazionale sfasciando una famiglia; distruggersi le articolazioni per correre smodatamente tutti i giorni, non credo si possano definire buoni esempi di obiettivo ecologico.
Il grado di raggiungimento di un obiettivo non è dunque una valutazione sulle nostre capacità volitive, quanto piuttosto la cartina di tornasole della nostra saggezza.

Come avere un obiettivo ecologico

Per costruire un obiettivo ecologico si devono considerare diverse componenti, vediamole in sintesi.

Credo che un obiettivo debba essere sfidante ovvero ricadere in quell’area di incertezza che rende stimolante il confronto con me stesso e il compito che mi attende. Iniziare una qualsiasi sfida sapendo già di avere vinto non è stimolante così come darsi un obiettivo smisurato per il tempo che abbiamo a disposizione o per le capacità di base da cui stiamo partendo.

Un obiettivo deve a mio parere essere espresso in termini positivi. Frasi del tipo “non voglio arrivare ultimo” partono da una negazione che, oltre a non definire il livello di soddisfazione (quanto prima dell’ultimo dovrò arrivare per sentirmi soddisfatto di me stesso?), mi metteranno nella condizione mentale di evitare qualcosa (arrivare ultimo) piuttosto che qualcosa che voglio ottenere (arrivare primo della mia categoria). Sempre nell’ambito della positività ricade l’idea di rispettare gli avversari e le regole della propria “sfida”. Doparsi, ostacolare gli avversari o sfruttare vantaggi tecnologici non permessi dai regolamenti è una sconfitta interiore che alla lunga brucia molto di più di un eventuale insuccesso sportivo.

Un obiettivo deve essere anche pianificabile ovvero dobbiamo immaginarci già come sarà la nostra vita nel fare quello che è necessario per il suo raggiungimento e vedere le nostre azioni come se guardassimo un film. Se il film non mi piace perché il personaggio si alza la mattina presto per andare ad allenarsi prima di andare al lavoro, ben difficilmente quando quel film diverrà la mia vita reale avrò la motivazione necessaria per affrontare i sacrifici che il raggiungimento del mio obiettivo richiede. Allo stesso modo non posso “sognare” di correre tra sei mesi la prossima maratona olimpica se non ho mai corso consecutivamente per più di cinque chilometri. Rendere pianificabile un obiettivo serve anche a distinguere chiaramente tra desideri e obiettivi. I primi infatti sono sempre vaghi e poco definiti mentre i secondi sono dettagliati e verificabili o, come dirò tra poco misurabili.

Per raggiungere un obiettivo è necessario poter valutare i propri progressi. Per questo motivo un obiettivo ecologico deve essere misurabile. “Oggi mi sento in forma” oppure “Oggi mi sento lento e pesante” non sono affermazioni oggettive in quanto potrebbero essere il frutto del proprio umore. Questo non significa che dobbiamo trascurare le indicazioni che il nostro corpo ci fornisce ma semplicemente che dobbiamo distinguere le sensazioni dalle misurazioni. Per poter dire che le mie capacità di ciclista scalatore sono migliorate avrò bisogno un tratto di salita cronometrato che possa ripetere più volte nelle condizioni più simili possibili (es. di mattina o in assenza di vento). Ad oggi esistono diversi algoritmi per calcolare l’impatto di un allenamento sul proprio fisico. In ambito ciclistico ad esempio il TSS (training stress score) messo a punto da Garmin è tra gli algoritmi più utilizzati per misurare il carico allenante e di conseguenza la confrontabilità di più lavori aerobici.

Strettamente legata alla pianificabilità (realizzabilità se ti piace di più) e alla misurabilità di un obiettivo c’è la scomponibilità di quest’ultimo. Tutti i più grandi obiettivi hanno traguardi intermedi. Non esiste campione olimpico che gareggi solo in occasione di questo evento. Più la posta in gioco è alta e più sarà necessario scomporre in tanti step il lavoro necessario per raggiungerla. Questo è funzionale a verificare con la misurazione i miglioramenti ottenuti e, non trascurabile, ha mantenere alta la motivazione anche quando le cose non andranno esattamente come abbiamo programmato. Ve lo immaginate se un campione olimpico dovesse buttare alle ortiche anni di preparazione perché a tre mesi dall’evento ha preso un’influenza che gli ha impedito di allenarsi per una settimana? Avere traguardi intermedi permette di non demoralizzarsi quando le cose non girano al meglio e di non caricare eccessivamente di aspettative l’evento finale.

Esempio concreto di Obiettivo Ecologico

Per fare un esempio concreto riporto quello che spesso mi capita di sentire pedalando in compagnia.

Una frase det tipo: “Quest’anno vorrei preparare la Nove Colli concludendo con un tempo inferiore alle sette ore”. Ora, essendo la Nove Colli una granfondo ciclistica di 210 km e 3900 metri di dislivello complessivo, quale che sia l’età di chi ha pronunciato una frase del genere è subito evidente che per stare sotto le sette ore si dovrà tenere una media superiore ai 30 km/h. Niente di impossibile (chi vince mediamente viaggia a 35 km/h di media) ma certamente quando nel proseguo della pedalata con il nostro “Signor X” mi sento dire che il tempo per gli allenamenti è si e no due ore per due volte a settimana più qualche uscita lunga nel fine settimana quando moglie e bambini non obbligano a week-end fuori porta capisco immediatamente che siamo nel regno dei desideri e non degli obiettivi. Se fossimo in presenza di un obiettivo “vero” il nostro “Signor X” dovrebbe comprendere che con il tempo a sua disposizione per l’allenamento non sarà possibile raggiungere il suo “sogno”.

A questo punto il “Signor X” potrà procedere in due modi.
Il primo prevede che una volta effettuato un test di ingresso un bravo preparatore valuti il lavoro necessario per portare il “Signor X” ad avere le caratteristiche fisiche per poter esprimere una prestazione in linea con l’obiettivo di stare sotto le sette ore alla prossima Nove Colli. In questo caso il “Signor X” si troverà di fronte un piano di lavoro che dovrà valutare in relazione a lavoro famiglia e voglia di sacrificarsi. Rimanere nell’ambito di un obiettivo ecologico in questo caso significa capire se quello che ci sta chiedendo il nostro sogno per diventare un obiettivo realizzabile è compatibile con il nostro universo di impegni e relazioni.
Il secondo approccio prevede di tenere fermo il tempo a disposizione del “Signor X” e riformulare l’obiettivo con qualcosa di più “realizzabile”. In questo caso la domanda che si dovrà porre il “Signor X” è se chiudere la prossima Nove Colli in meno di otto ore (con il poco tempo a sua disposizione non sarebbe realistico pensare a obiettivi più ambiziosi) è sempre un obiettivo stimolante. Non avrebbe senso iniziare ad allenarsi per il raggiungimento di un obiettivo che per quanto tecnicamente e sportivamente sfidante è ritenuto dal soggetto così lontano dal proprio “sogno” da non generare mai la motivazione per salire in sella e durare fatica.

Chiarito questo ci saranno da affrontare periodi di allenamento (chiamati mesocicli) specifici in cui il “Signor X” si dovrà interfacciare al proprio preparatore per una serie di test intermedi. Questo garantirà al programma quella scomponibilità che potrà permettere di inserire anche in corsa quei correttivi necessari al raggiungimento dell’obiettivo finale. Inoltre per evitare un eccessivo accumulo di aspettative con l’evento finale sarà necessario che il nostro “Signor X” affronti delle gare di preparazione. Questo gli permetterà di trovarsi in condizioni simili a quella della Nove Colli e di imparare a conoscere sé stesso anche sotto stress.

A questo punto ci sarebbe da aprire una lunghissima parentesi dedicata alla preparazione mentale di un evento sportivo ma, essendo andato già “lungo” per quelli che sono i format di Internet rimando questo ulteriore approfondimento ad un futuro articolo.

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Picchi glicemici: cosa sono e come controllarli

Sempre più spesso si sente parlare di picchi glicemici e della necessità di controllarli per stare in una condizione di vigore e benessere.

Prima di parlare di picchi glicemici però bisognerebbe aver chiara la differenza tra indice glicemico e carico glicemico, nonché aver appreso che non sono solo i carboidrati a stimolare la produzione di insulina.

Picchi Glicemici: due definizioni per orientarci

“L’indice glicemico (IG) è un sistema di classificazione numerica utilizzato per misurare la velocità di digestione e assorbimento dei cibi contenenti carboidrati e il loro conseguente effetto sulla glicemia, cioè sui livelli di glucosio nel sangue. Un cibo con un punteggio dell’IG alto produce un grande picco momentaneo di glucosio dopo il suo consumo. Al contrario, un alimento con un basso indice glicemico provoca un lento rilascio di glucosio nel sangue dopo il suo consumo.”

“ll carico glicemico o CG (dall’inglese Glycemic load, abbreviato in GL) è un parametro che stabilisce l’impatto sulla glicemia di un pasto glucidico in base al suo indice glicemico (IG) e la quantità di carboidrati contenuti al suo interno. […] La formula per calcolarlo è: GL = (indice glicemico di un alimento x la quantità di carboidrati contenuti nell’alimento) diviso per 100. Maggiore è il carico glicemico maggiore è il conseguente innalzamento dei livelli glicemici e il rilascio di insulina nel sangue.”

E’ abbastanza evidente quindi che consumando grandi quantità di alimenti ad alto indice glicemico, per effetto del carico glicemico si avrà un picco glicemico e conseguentemente la produzione di insulina aumenterà molto rapidamente.

Ciò detto si apre un mondo di consigli per limitare questo effetto che, se reiterato nel tempo (parlo di anni e abitudini alimentari), può portare ad insulino-resistenza e diabete di tipo 2.

Dieta a basso indice glicemico

Uno dei consigli più diffusi per una dieta a bassa indice glicemico è quello di consumare insieme ai carboidrati anche quote proteiche importanti.

Il classico pasto da body-builder riso-bianco e petto di pollo non controlla affatto la produzione di insulina.
Nel caso specifico, sapendo che l’insulina è un ormone anabolizzante, l’abbinamento viene utilizzato per permettere un più facile assorbimento della quota proteica. L’insulina infatti, contrariamente alle dicerie che la vogliono coinvolta solo nel metabolismo dei glucidi, stimola anche la sintesi proteica (non è un caso che molti body-builder professionisti la utilizzino in forma esogena come doping).
Più in generale, chiusa questa piccola digressione nel mondo del body-building, va detto che questa presunta azione “magica” delle proteine nel limitare la produzione di insulina e conseguentemente nel tenere basso il carico glicemico non è del tutto vera.

…proteine e insulina?

proteine e insulina

Sono proprio le proteine, o meglio alcuni aminoacidi, a stimolare la liberazione di insulina.
Infatti anche le proteine, sebbene possano contribuire a ridurre il carico glicemico dei carboidrati, stimolano la liberazione di insulina.
Sono leucina, valina, lisina e arginina ad avere un effetto insulinogenico. Se vi preparate riso e tonno (magari al naturale) rischiate quindi di vedere aumentare la vostra glicemia più di quanto questa non farebbe se mangiaste solo tonno o solo riso. Carico glicemico e indice glicemico infatti non considerano l’effetto insulinogenico delle proteine. Se proprio, proprio volete seguire questa via le sperimentazioni fatte su me stesso mi hanno “suggerito” di limitare la quantità percentuale degli alimenti glucidici a favore di quelli proteici, rimanendo complessivamente su quantità totali modeste.

Meglio con i grassi!

Ora, siccome non son tipo da “patire la fame” preferisco di gran lunga aggiungere ai miei pasti una discreta quota di grassi che, questi sì, rallentano l’assorbimento degli zuccheri contenuti nei carboidrati non hanno alcun effetto sulla produzione di insulina. Attenzione non sto dicendo di far “galleggiare” il riso nell’olio (mi raccomando sempre Extra Vergine d’Oliva, spremuto e usato a freddo!) ma di fare un uso assennato di questi macronutrienti.

Eccoci quindi a parlare una volta ancora dei grassi che, demonizzati per decenni, sembrano finalmente sdoganarsi dal ruolo di “cattivi” impenitenti! Del resto, se pensate per un attimo di essere i protagonisti di uno di quei reality dedicati alla sopravvivenza estrema, scoprirete immediatamente che la natura di un bosco offre ben poche possibilità di approvvigionarsi di alimenti glucidici. Del resto sembra che anche i nostri avi cacciatori-raccoglitori, quando riuscivano a predare qualche animale, preferissero mangiarne prima le parti molli (tipicamente più ricche di grassi) piuttosto che i tessuti muscolari (ricchi invece di proteine). La scelta era dettata dall’estrema difficoltà di conservazione degli alimenti (impossibile per le parti molli e molto difficile per la parte muscolare). I nativi americani (ma anche molte altre popolazioni che hanno tramandato fino a noi abitudini ancestrali) essiccavano la carne mangiando subito alcune parti molli.
Tutto questo mi conforta una volta ancora sul fatto che l’essere umano non sia una macchina fatta per andare a zuccheri, non almeno tanti quanti le moderne industrie alimentari ci vorrebbero far credere essere necessari per vivere in salute.

Bene anche con le fibre

Concludo questo articolo dedicando un paragrafo alle fibre, anch’esse molto presenti nel mondo da cui proveniamo, che, come i grassi, rallentano l’assorbimento dei carboidrati (e più in generale anche degli altri nutrienti). Non ultimo poi l’effetto “meccanico” che queste sostanze hanno nel favorire la motilità intestinale preserverà tutti coloro che abusano con una certa frequenza di carboidrati e/o proteine da processi fermentativi o putrefattivi.

Se ti è piaciuto questo articolo approfondisci l’argomento leggendo lo speciale sulla dieta!

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Eustress e Distress: quale è la differenza?

Ho già scritto in diversi altri articoli pubblicati sul mio blog che ritengo molto interessanti gli studi che dimostrano come l’essere umano abbia oggi un corredo genetico non molto dissimile dal suo antenato paleolitico.

Questa affermazione ci porta subito ad evidenziare come, a fronte di un corredo genetico sostanzialmente identico, la nostra vita sociale sia invece cambiata tantissimo da 20.000 anni a questa parte. Biologicamente la macchina umana è fatta per funzionare in modo diverso da quello che oggi ci ostiniamo a volerle far fare.

Stress sano e stress negativo

Anticamente la nostra attenzione era di tipo selettivo e la sua attivazione mediata da fenomeni capaci di attivare il meccanismo di attacco/fuga (in inglese “fight-or-flight response”). Non doveva essere carino imbattersi in un leone mentre si camminava per la savana o vedersi sbucare un orso bruno da dietro un albero.

Questo tipo di stimoli che oggi definiremo stressor o stimoli stressanti attivavano il massimo livello di allerta e risposta possibile sia che si decidesse di combattere o che si decidesse di fuggire.

Quello appena descritto era un tipo di stress per così dire “sano” in quanto, quale che fosse il pericolo scampato, una volta chiesto al nostro organismo una prestazione eccezionale esisteva la possibilità di recuperare il dispendio psico-fisico secondo processi fisiologici normali.

Oggi non abbiamo più leoni, orsi o lupi che ci predano ma viviamo continuamente una lunga serie di esperienze che attivano i processi di allerta. Già l’esperienza di guida (sia essa in auto o in moto) attiva i nostri sistemi di allerta in maniera sub-massimale. I rapporti gerarchici sul posto di lavoro, le problematiche familiari infittiscono gli stimoli stressanti.

Il problema di tutti questi stimoli è che essendo sub-massimali non vengono percepiti come potenzialmente dannosi. Al contrario la produzione continua di ormoni, neurotrasmettitori e altre sostanze stress-correlate finisce per far funzionare il nostro motore biologico in modo disfunzionale.

Detto in altre parole non ci siamo evoluti per avere continuativamente elevati livelli di adrenalina, cortisolo, ma per alternare picchi elevatissimi di queste sostanze a momenti piuttosto lunghi di calma in cui produzione di questi ormoni scende in modo sostanziale.

Differenza tra Eustress e Distress

Molti studi ormai confermano come una continua “iperproduzione” di ormoni legati al meccanismo “fight-or-flight” finiscano per alterare in maniera anche grave i normali processi metabolici di una persona.

Da questo è facile capire la differenza tra eustress (stress positivo) e distress (stress negativo).

Un altro esempio, oggi molto diffuso, lo si può fare relativamente alle varie forme di allenamento.

eustress e distress nell’allenamento

In questo caso non sono immediatamente coinvolti gli ormoni legati al meccanismo “fight-or-flight” ma l’impatto metabolico può essere ugualmente importante.

Quando ci alleniamo in modo corretto si configura una forma di eustress: il sistema muscolare subisce uno stress (l’allenamento) al quale risponde con un processo di adattamento (la supercompensazione).

Se gli allenamenti successivi sono troppo ravvicinati nel tempo lo stimolo allenante diviene poco a poco una forma di distress perché il nostro organismo deve rispondere ad una sollecitazione (la prestazione richiesta dall’allenamento) quando ancora è impegnato nel lavoro di supercompensazione e non ha tutte le risorse disponibili per il nuovo impegno.

Ora, se è vero che i grandi professionisti di tutte le discipline cercano di correre sempre lungo la sottile linea di demarcazione tra eustress e distress è vero che le persone comuni rischiano molto spesso di sovrallenarsi.

Nonostante questo però ci sono importanti differenze nella risposta di ciascuno di noi agli eventi stressanti presenti nella nostra vita. Ecco quindi che ciò che è massimamente stressante per me potrebbe essere ben tollerato da qualcun altro.

Cosa significa gestire lo stress?

Quindi la domanda topica diventa: visto che la nostra vita quotidiana è ormai molto diversa da quella per cui il nostro DNA si è evoluto in centinaia di migliaia di anni, come facciamo a fare in modo che gli stimoli (esterni e interni senza differenza) che viviamo possano essere ricondotti quanto più possibile a forme di eustress e non di distress?

Per quanto inaspettata la risposta ha a che fare con la capacità che ciascuno di noi ha nel gestire lo stress. E allora cosa significa gestire lo stress? Cos’è che accade nel nostro corpo quando ci dedichiamo ad attività come la meditazione (che dovrebbe aiutarci a gestire meglio lo stress)?

Al di là delle difficoltà nell’attività meditativa, di cui mi riprometto di parlare in un altro articolo, quello che accade quando meditiamo o facciamo attività finalizzate tra le altre cose alla gestione dello stress riacquistiamo padronanza della nostra vita. Questo senso di sicurezza ci permette di affrontare momenti stressanti avendo sempre un ruolo attivo.

A differenza di chi vive passivamente un’esperienza stressante, avere il controllo di sé permette di dare una visione positiva e finalizzata ad ogni esperienza.

Il ruolo della meditazione nella gestione dello stress

Non è un caso che quando si impara a meditare una delle prime cose che si apprende è la consapevolezza del respiro. Il fluire dei pensieri è inizialmente secondario e, come ogni cosa che ci distrae nella vita quotidiana, è la capacità di focalizzarsi su un singolo aspetto (il respiro) che con il tempo esclude le altre fonti di distrazione (i pensieri).

Allo stesso modo essere focalizzati permette a molte persone di affrontare gli eventi stressanti che le separano dal loro obiettivo come se queste fossero “semplicemente” delle sofferenze necessarie per poter raggiungere il traguardo finale.

Al contrario chi vive le stesse difficoltà come qualcosa di esterno e non funzionale al raggiungimento di un traguardo svilupperà un atteggiamento passivo che avrà delle pesanti ripercussioni anche sul piano biologico.

Sensazione di Controllo e Accettazione

Dalla sensazione di controllo discende quella di accettazione delle circostanze. Sapere di aver scelto di “stare” in una certa situazione genera molta più energia psichica e ci mette in condizione di accettare le conseguenze più “serenamente”.

Questo non significa non sentire la fatica di un allenamento molto impegnativo o lo stress di una situazione ma semplicemente non essere soggiogati da quest’ultima.

La non accettazione di una qualsiasi situazione porta facilmente all’insorgere di pensieri aggressivi in cui la rabbia e la frustrazione la faranno da padrona. Da qui a non vedere soluzioni possibili ai propri problemi il passo è breve e porta con sé una quantità di effetti fisiologici di grande portata.

Per chi volesse approfondire questi temi consiglio di partire dalla pagina di Wikipedia dedicata a Hans Selye, medico austriaco, naturalizzato canadese che è da tutti considerato come colui che per primo ha definito il moderno concetto di “stress”.


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Le proprietà curative della Salvia

La salvia (Salvia officinalis) è una piccola pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Lamiaceae.
Il suo uso come pianta aromatica è ben conosciuto fin dall’antichità e sono molte le ricette tipiche che si avvantaggiano del suo inconfondibile aroma.

Pochi invece conoscono le proprietà curative della salvia, una piantina dalle doti antisettiche, antinfiammatorie, diuretiche e ipoglicemizzanti.

Le propriatà curative della Salvia

Salvia officinalis2Le proprietà curative della salvia sono davvero notevoli. Senza scendere in dettagli tecnici da botanico mi limito a dire che le sue foglie (la parte più comunemente utilizzata sia in cucina che in cosmetica) contengono diversi flavonoidi tra cui spicca la luteolina che ne spiegherebbe l’uso tradizionale per la cura e l’attenuazione di diversi disturbi femminili come la sindrome premestruale o le vampate di calore durante la menopausa.

Sempre ad interesse del pubblico femminile sembra che alcuni principi contenuti nell’olio essenziale della salvia favoriscano, in soggetti che soffrono di amenorrea, la comparsa del ciclo mestruale.

L’olio essenziale di salvia contiene tujone, cineolo, borneolo, linalolo, e beta-cariofillene.

In particolare il tujone ed altri chetoni sembrano avere sull’uomo un effetto neurotossico, è per questo motivo che la salvia non è entrata nell’uso alimentare come una qualsiasi altra insalata e perché il suo olio essenziale per uso interno dovrebbe essere usato solo sotto prescrizione e controllo medico (si veda anche più avanti i risultati di promettenti studi su queste sostanze).

Ciò detto l’uso della salvia per “insaporire” i nostri piatti ha una tradizione millenaria da cui si derivano molti vantaggi. Nonostante la lista degli effetti benefici di questa pianta siano lunghissimi personalmente ne apprezzo in particolare alcuni. Continua a leggere

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