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Salute o malattia? A noi la scelta! – parte 4

Digiunare sì, digiunare no

E adesso che sappiamo quanto poco salutare sia l’ambiente in cui viviamo e quanto potenzialmente sbagliate possano essere le nostre abitudini, è il momento di capire come possiamo agire per migliorare il nostro stato di salute.
Ritengo che scegliere con cura quello che mettiamo in tavola sia un buon punto di inizio.
In un mondo in cui l’insulino resistenza e le malattie metaboliche sembrano fare più danno di una pandemia, credo che limitare l’apporto di zuccheri semplici al alto indice glicemico sia una buona strategia di attacco.

Personalmente ho sperimentato su me stesso vari modi per ricercare quello che oggi sembra di gran moda chiamare “flessibilità metabolica”. Tradotto in parole semplici significa portare il nostro organismo ad usare tutte le fonti energetiche possibili. Uno dei modi che ho sperimentato essere particolarmente efficace, è il digiuno intermittente unito ad una dieta chetogenica. Tradotto in pratica si assumono tutte le calorie del giorno in una finestra di sei ore e per le restanti diciotto ore si digiuna, idratandosi regolarmente.
Ovviamente si tratta di una pratica a cui non possiamo accedere da un giorno all’altro, pena creare più danni che benefici al nostro organismo.
Il nostro organismo è geneticamente programmato per alternare periodi in cui si mangia a sazietà a periodi più o meno lunghi di digiuno. Il problema è che la moderna alimentazione, troppo ricca di zuccheri, ci ha, per così dire, fatto dimenticare come si utilizzano le altre fonti di energia. Per “ricordarcelo” dobbiamo usare un criterio progressivo.
Ad esempio una prima strategia potrebbe essere quella di fare l’ultimo pasto solido tre o quattro ore prima di andare a letto. Nell’infinita saggezza popolare, i vecchi delle nostre campagne spesso si trovavano a cenare verso le sei o le sette della sera. Questo, da un lato garantiva un rispetto ottimale dei ritmi circadiani, consentendo di andare a letto presto e di sfruttare quella finestra oraria in cui il nostro corpo è programmato per massimizzare la produzione di ormoni e per riparare il nostro organismo. Non solo, mangiare tre o quattro ore prima di coricarsi ci mette nella condizione di arrivare a mattina con già un numero cospicuo di ore di digiuno. Assumendo come media di dormire otto ore, questo significherebbe di arrivare a mattina con già dodici ore di digiuno alle spalle. Da qui ad arrivare alle sedici prima e diciotto ore poi, la strada non è lunghissima. Certo è che il digiuno, anche se intermittente, è pratica che va approcciata con grande attenzione e consapevolezza. Non entrerò nel dettaglio delle singole tradizioni religiose e non, che consigliano questo tipo di approccio alimentare, ma mi limiterò a dire che è fine comune a tutti il concetto di purificazione. Qui, evidentemente, mi occuperò della purificazione fisica dicendo che proprio perché questo tipo di approccio alimentare è in grado di liberare molte tossine accumulate, la sua adozione va fatta in stato di buona salute e/o sotto il controllo di personale sanitario preparato in materia.

Il grasso infatti, oltre ad essere un fantastico deposito di energia, è anche un formidabile chelante. Quando nel nostro corpo entra una quantità di tossine più grande di quella che i normali sistemi di escrezione riescano a gestire, il nostro corpo “imbriglia”, per così dire, quelle in eccesso nel grasso. Questo avviene non per masochismo ma perché il nostro corpo si è evoluto, considerando le scorte di grasso come qualcosa di “sacro” da utilizzare solo in caso di reale necessità. Tutta questa “sacralità” è diventata molto meno vera da quando abbiamo un accesso alla risorsa alimentare facile e continuato. Sebbene, come ho già scritto nel mio speciale “La dieta, questa sconosciuta” ogni caloria ingerita non diventi una caloria assimilata, è pur vero che oggi nei Paesi più sviluppati, è comune avere larghissime fette di popolazione (per non dire tutta!) che vive in perenne stato di sovralimentazione. In queste condizioni il grasso diventa un buon alleato con cui fronteggiare la presenza nell’organismo di tante tossine. Da qui si capisce facilmente che sottoporre un soggetto ad una dieta chetogenica e aggiungere a questo un digiuno breve, rischia di liberare nel sangue in maniera molto rapida tutte le tossine tenute ferme dal grasso. E’ per questo motivo che, per i soggetti in non perfetta salute, si riportano in letteratura molti disturbi che vanno dal mal di testa ai disturbi intestinali.

Ottenere una buona flessibilità metabolica è, per quanto mi riguarda, un processo lungo che mal si confà alle smanie dei fanatici della prova costume. Paradossalmente però, quello appena descritto, è uno dei sistemi più usati per perdere peso rapidamente: pochi zuccheri, meno proteine, più grassi, il tutto per un totale calorico del 20% inferiore al fabbisogno giornaliero, mangiato in una finestra massima di sei/otto ore: è la formula magica per vedere scendere i numeri sulla bilancia.

E allora, se tutto fosse così semplice, dove starebbe la fregatura?
La fregatura sta nel fatto che se da una alimentazione “normale” (la classica mediterranea per intendersi) passiamo ad un regime come quello descritto, lo stress per fronteggiare questa modifica repentina ci farà produrre grandi quantità di ormoni pro-infiammatori che, non appena molleremo un attimo nelle nostre determinazioni, ci riporteranno rapidamente al punto di partenza. Nella mia esperienza è stato di fondamentale importanza un avvicinamento progressivo. Certo, una volta attivata a pieno la flessibilità metabolica, si ha molto più margine di manovra e i rischi di “contraccolpi” molto rari. Personalmente riesco a stare in OMAD (One Meal a Day) senza grossi problemi. Ovviamente è un’estremizzazione del concetto, ma serve per capire che, per quanto sembri paradossale, il nostro organismo è progettato più per questo tipo di alimentazione, piuttosto che per cinque pasti abbondanti al giorno in un lasso di tempo di sedici ore.

A supporto di quanto scritto iniziano a circolare diversi studi che dimostrano come il digiuno induca un abbassamento dei livelli di insulina. Questo, a cascata, ci pone nella condizione di usare e non accumulare grassi, stimolando l’autofagia cellulare. In particolare si è visto che il digiuno, come l’attività breve ed intensa, stimolano l’autofagia, a cui si collega poi un aumento della produzione di un enzima chiamato AMPK.
L’AMPK è responsabile in particolare della mitofagia (degradazione a fini energetici dei mitocondri non più efficienti) e della biogenesi mitocondriale (ovvero la nascita di nuovi mitocondri).

Come ho già scritto in altri post pubblicati su questo blog, negli sport di resistenza il doping anni ’90 puntava tutto sull’aumento dell’ematocrito e della capacità di trasporto dell’ossigeno dai polmoni alle cellule. Questo offriva un innegabile aumento delle prestazioni e delle capacità di recupero, ma trascurava un fattore cruciale ovvero che la cilindrata, e di conseguenze la prestazione dell’atleta, era legata più a quanto ossigeno era in grado di “bruciare” piuttosto che a quanto ossigeno era in grado di “trasportare”.

Personalmente ho condotto test (FTP) di resistenza con valori di ematocrito spostati nella parte più bassa del range di normalità, ottenendo di fatto risultati di potenza media migliori di quando il mio ematocrito era nella metà alta del range.

 

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Salute o malattia? A noi la scelta! – parte 3

alimentazione e stili di vita

Alimentazione e Stili di Vita

Alterazione del microbioma

L’idea che le cose che mangiamo facciano parte di noi non appena ne deglutiamo un boccone, è una delle idee più diffuse ed inesatte che mi sia capitato di riscontrare parlando con le persone che conosco.

L’apparato digerente che inizia con la bocca e termina con l’ano, va immaginato come un lungo tubo in cui i momenti di scambio tra il “fuori” ed il “dentro” sono molto limitati.

Tutto quello che sta dentro a questo “tubo” è il frutto di una evoluzione durata milioni di anni, in cui abbiamo imparato a convivere e collaborare vantaggiosamente con una serie pressoché sterminata di microorganismi.

Giusto per dare un’idea approssimativa, stiamo parlando di trentamila miliardi di batteri ed un milione di miliardi di virus batteriofagi del peso totale approssimativo di qualche chilogrammo.

Detto in una parola il nostro microbioma è uno dei più potenti alleati per la nostra buona salute.

Continuamente insidiato da diete ricche di carboidrati, antibiotici e altri farmaci dannosi per l’intestino come gli inibitori della pompa protonica, il nostro microbioma finisce per indebolirsi, permettendo ai batteri patogeni di prendere il sopravvento e di aprire le porte ad infezioni e malattie di varia natura.

Inquinamento elettromagnetico

Da non sottovalutare per una salute ottimale anche l’inquinamento elettromagnetico a cui siamo sottoposti quotidianamente.

L’utilizzo di forni a microonde, fornelli ad induzione, phon e altri elettrodomestici di uso comune, genera campi magnetici a cui ci esponiamo quotidianamente senza alcun tipo di riflessione. Se è vero che l’intensità del campo magnetico prodotto da questi elettrodomestici a 20-30 cm di distanza è ben al di sotto del limite previsto dalla normativa, è pur sempre vero che il benessere ha di fatto “elettrificato” quasi tutte le attività domestiche.

Quando si parla di Elettrosmog e di campi magnetici potenzialmente dannosi per la salute, il principale imputato è oggi lo smartphone.

Viviamo ormai con gli smartphone a meno di un metro di distanza dal nostro corpo per gran parte della giornata. Le nostre case sono nella quasi totalità dotate di sistemi di connessione wireless e questo ci permette di usare sempre più questi oggetti in sostituzione di PC e tablet.[1]

Sebbene siano dati ancora parziali e tutti da confermare, sembra che uno degli effetti della continua esposizione a campi elettromagnetici possa determinare un aumento del calcio intracellulare che, una volta trasferito all’interno della cellula con l’aumento della segnalazione cellulare dello stesso, determinerebbe una aumentata possibilità di danno al DNA cellulare[2].

Tecnicamente, se la quantità di calcio nella cellula è elevato, aumentano anche i livelli di ossido e perossido d’azoto. Questi ultimi, interagendo tra di loro, formano perossinitriti che danneggiano mitocondri e DNA cellulare.

Ovviamente si tratta di ipotesi da approfondire e confermare con ulteriori studi scientifici ma, nel dubbio, mi pare saggio usare questi utili strumenti che migliorano qualità della vita e comunicazione, solo quando ne abbiamo veramente bisogno.

Orari pazzi

E’ ormai abbastanza chiaro che sono molti i fattori che determinano il nostro benessere. Nessuno di questi è in grado, da solo, di determinare il nostro stato di salute, ma dovremmo essere consapevoli che tutti insieme fanno la differenza.

Ecco allora che ci troviamo a parlare di orari e a capire come anche la cosa più “salutare” del mondo possa, nel momento sbagliato, diventare poco utile per il raggiungimento del nostro benessere generale.

Iniziano a circolare diversi studi[3] in cui si evidenzia come fette sempre più consistenti della popolazione dei paesi occidentali consumi percentuali prossime al 35% dell’introito calorico quotidiano poche ore prima di andare a letto, ovvero quando l’organismo ne avrebbe meno necessità.

Mangiare molto spesso per un lasso di tempo lungo (tipicamente dalle 07:00 AM alle 22:00 PM), lascia di fatto il nostro organismo in una condizione di affaticamento perenne dovuto alla digestione degli alimenti.

Con buona pace dei bodybuilder che temono di andare in catabolismo se non mangiano ogni due ore, il corpo umano è fatto per osservare lunghi periodi di digiuno duranti i quali si purifica e si auto ripara.

L’eccesso di nutrienti mette il nostro corpo nella condizione di “rilassatezza” che deriva dal non dover attivare tutti quei meccanismi di sopravvivenza tipici invece della nostra storia di cacciatori-raccoglitori che non avevano accesso continuo e massivo alle risorse alimentari.
Uno di questi processi è l’apoptosi cellulare [4]ovvero la morte programmata di alcune nostre cellule per il mantenimento in salute dei nostri tessuti. A questo proposito è bene sapere che l’apoptosi si avvia in presenza di ormoni ed enzimi che si producono maggiormente in condizioni di digiuno.

Più in generale mangiare nelle ore serali di poco precedenti il riposo notturno porta a:

  • Danneggiare i mitocondri che sono costretti a lavorare nel momento in cui sarebbe necessario per loro un po’ di riposo.
  • Alterare la produzione di alcuni ormoni. Il mancato abbassamento della nostra temperatura corporea (quando digeriamo produciamo calore), influenza negativamente la secrezione di alcuni ormoni che, tipicamente, si avvia quando il nostro organismo si “raffredda”.
  • Ridurre la flessibilità metabolica perché il frequente apporto di nutrienti (di cui una quota è sempre costituito da carboidrati) impedisce l’attivazione, per sua natura lenta, del metabolismo lipidico.

A molti suonerà strano ma alcuni nostri organi, l’intestino in primis, hanno bisogno di finestre di almeno dodici ore per potersi auto riparare[5].

[5] Ph.d. Panda, Satchin “The Circadian Code: Lose Weight, Supercharge Your Energy, and Transform Your Health from Morning to Midnight”, Rodale Pr; 1 edizione (12 giugno 2018).

di

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Salute o malattia? A noi la scelta! – parte 2

alimentazione e malattie

Alimentazione e Malattie


Omega 3 e Omega 6

Quando si parla di Alimentazione e Malattie ci sono molti aspetti da valutare.

Ad esempio il rapporto tra Omega3 e Omega 6. Per questi due acidi grassi, entrambi utili ai normali processi fisiologici, il rapporto ottimale dovrebbe stare tra 1:1 e 1:5.

Questo significa che, nella peggiore delle ipotesi, per ogni grammo di Omega 3 ce ne dovrebbero essere al massimo cinque di Omega 6.

Nell’alimentazione occidentale moderna questo rapporto oscilla mediamente tra 1:20 e 1:50. Ora, poiché gli Omega 6 promuovono nell’organismo i processi infiammatori, va da se’ che avere un rapporto così sbilanciato mette il nostro organismo in uno stato di perenne infiammazione.

Gli Omega 6 sono grassi chimicamente instabili e molto vulnerabili ai processi ossidativi. Ora, anche senza addentrarsi troppo nei dettagli chimici, è del tutto evidente che un po’ di infiammazione è fisiologica ed utile. Immaginate cosa succederebbe ad una ferita se non si attivasse quella benefica infiammazione locale che accelera il metabolismo per favorire tutti i processi di riparazione dei tessuti. Il problema si genera quando abbiamo una infiammazione “sistemica” che non serve a niente se non ad esporci a grandi quantità di radicali liberi, che a loro volta attaccano le strutture del nostro organismo.

E i grassi saturi?

L’idea che i grassi saturi debbano sempre e comunque fare male e che sia meglio bandirli dalla dieta a tutto vantaggio di carboidrati (magari di origine cerealicola), ci porta al secondo grande problema odierno ovvero all’insulino-resistenza.

Escludere dalla tavola i grassi ci porta in molti casi a mangiare più del necessario e con un elevato apporto di carboidrati ad alto indice glicemico, costringendo così il nostro organismo a produrre grandi quantità di insulina per abbassare il livello di glucosio nel sangue (altrimenti dannoso per le cellule).

L’eccessiva quantità di insulina “desensibilizza” per così dire i recettori delle cellule, che per “aprirsi” e far entrare il glucosio hanno bisogno di stimoli sempre più forti. Il problema si complica quando il pancreas non è più in grado di produrre tutta questa insulina, lasciando di fatto un sacco di glucosio in circolazione.

Ma se abbiamo appena detto che troppo glucosio nel sangue è tossico, la domanda nasce spontanea: dove va a finire il glucosio in eccesso? Si dà il caso che l’insulina abbia tra le sue funzioni anche quella di agevolare l’ingresso dei trigliceridi negli adipociti (le cellule che contengono grasso) e siccome i trigliceridi si formano dall’unione di una molecola di glicerolo con tre acidi grassi per permettere al glucosio in eccesso nel sangue di essere trasformato in qualcosa di “stoccabile” (diverso dal glicogeno), è del tutto evidente che si ingrassa molto più facilmente mangiando zuccheri che non grassi.

Inquinamento alimentare

Come se non bastassero industrializzazione ed impoverimento nutritivo degli alimenti, a rendere le cose ancora più difficili ci si è messo anche l’uso indiscriminato di fertilizzanti sintetici, additivi alimentari e pesticidi.

Se è vero infatti che le norme dei paesi più sviluppati prevedono limiti piuttosto bassi di tutte queste sostanze, è altrettanto vero che non è l’esposizione episodica ad una sostanza tossica che costituisce il problema. I livelli massimi fissati per legge di queste sostanze sono così bassi che nessuno rischia niente mangiandoli una sola volta. Il problema vero è l’esposizione costante e incrociata a tutte queste sostanze chimiche.

Personalmente credo che mangiare quotidianamente cereali di produzioni dove si usa glifosato, non sia la migliore strategia per ottenere un livello di salute ottimale. Per tutta onestà non voglio neppure passare come un “integralista dell’alimentazione”, in quanto sono ugualmente convinto che un bel piatto di spaghetti alla amatriciana non abbiano mai ucciso nessuno (di base in buona salute!).

Credo invece che la salute ottimale si costruisca pasto dopo pasto nel lungo periodo, attraverso la consapevolezza che nei nostri cibi ci sono sempre meno micronutrienti e sempre più sostanze di sintesi chimica che spaziano dai residui di fertilizzanti chimici e diserbanti, per finire con conservanti, coloranti e additivi per esaltare caratteristiche che gli alimenti non hanno più.

(Continua…)

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Salute o malattia? A noi la scelta! – parte 1

perché ci ammaliamo

Perché ci ammaliamo?

Mi sono spesso interrogato sul perché oggigiorno, nonostante il grande miglioramento delle condizioni socio-sanitarie, non si sia registrato un uguale miglioramento della qualità della salute individuale. Ci ammaliamo sempre di più e, sebbene l’aspettativa di vita si allunghi sempre, la qualità della stessa nelle ultime due-tre decadi di esistenza è tutt’altro che ottimale.

Credo che la medicina occidentale sia diventata formidabilmente efficiente in tutto quello che concerne la diagnosi strumentale di una patologia (abbiamo oggi strumentazioni inimmaginabili solo 30-40 anni fa).

Allo stesso modo la chirurgia è in grado di cose a dir poco strabilianti. Allora perché ci ammaliamo?

Infatti nonostante questo, la medicina occidentale è ancora in affanno nella cura delle malattie croniche (ad oggi prima causa di morte nei paesi maggiormente sviluppati), per le quali tende più frequentemente alla soppressione dei sintomi piuttosto che alla ricerca della causa primaria. Che si tratti di patologie cardiovascolari, diabete di tipo 2 o semplice stanchezza cronica, l’impatto sulla qualità della vita è spesso drammatico, come drammatico è l’effetto sui costi del sistema sanitario che deve assistere questi malati.

Sopprimere il sintomo o rimuovere le cause?

Sopprimere il sintomo non significa necessariamente rimuovere le cause che generano il disturbo. Allo stesso modo cercare la cura per la causa primaria dei nostri disturbi, non significa bandire i farmaci affidandosi a pratiche dalla dubbia efficacia terapeutica.

Credo però che sia un ragionamento di buonsenso quello di riappropriarsi di un benessere di fondo che rimuova, quanto più naturalmente possibile, le cause delle nostre infiammazioni e patologie.

Ecco che l’alimentazione diventa (per me almeno) la principale alleata per raggiungere questo obiettivo. Per poterlo fare in maniera efficace bisogna però essere consapevoli di un po’ di cose utili a dribblare eventuali ostacoli.

Il contesto in cui viviamo è quello industriale e trascurarlo sarebbe un errore grossolano. Purtroppo la produzione industriale vede nell’aumento della quantità a parità di costo, una delle sue direttrici di sviluppo principali. Questo ovviamente non significa che non esistano a livello industriale eccellenze alimentari degne di nota, ma quello che posso testimoniare con la mia esperienza è che a livello industriale è quasi sempre la quantità ad avere la meglio sulla qualità.

In soldoni significa che quello che mangiamo oggi, sebbene fornisca calorie in abbondanza, è spesso “povero” di tutti quei micronutrienti così utili alla nostra salute. Vediamo insieme alcuni esempi facilmente ritrovabili in letteratura.

(Continua…)

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Il Microbiota, un illustre sconosciuto – seconda parte

DISCLAIMER E NOTE LEGALI
Intestino e microbiota

Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta del nostro microbiota.

Lactobacillus caseiPersonalmente nella mia alimentazione faccio grande uso di verdura cruda. Può sembrare banale ma anche il metodo di cottura più delicato (il vapore ad esempio) finisce per impoverire notevolmente il valore nutrizionale di ogni ortaggio o, salvo alcune eccezioni, la biodisponibilità dei suoi micronutrienti. Non solo, alcuni alimenti con la cottura mutano in modo determinante la quantità di zuccheri e il loro indice glicemico. Questo accade per un processo che tecnicamente si chiama gelatinizzazione dell’amido che altera in modo anche molto marcato l’indice glicemico.

Ecco quindi che un etto di carote lesse avrà un indice glicemico molto più alto delle sorelle mangiate crude. Per il benessere del nostro intestino poi, è essenziale mangiare buone quantità di verdure crude perché le fibre in esse contenute, oltre ad un effetto di ripulitura “meccanica” del nostro intestino creano le condizioni ideali per la colonizzazione dell’intestino da parte di quei microrganismi a noi tanto favorevoli.

Il vantaggio di mangiare verdure crude

Mangiare verdure crude ci mette nella condizione di mangiare cibi “vivi”. Questo particolare potrebbe sembrare una cosa di poco conto ma, al contrario, è di fondamentale importanza perché così facendo oltre all’alimento introduciamo nel nostro organismo piccole quantità di batteri che possono “collaborare” con noi per farci stare in salute (leggi più avanti le ultime scoperte sul trasferimento genetico orizzontale). Il calore della cottura infatti stermina letteralmente queste forme di vita che, in molti casi, sono un sopporto formidabile per la nostra salute.

Assicurarsi dell’origine (biologica se non addirittura biodinamica) lavare accuratamente le verdure è una pratica salutistica importante, non di meno dovremmo essere un po’ più coscienti del fatto che il nostro organismo è perfettamente in grado di fronteggiare (quando è in salute) gli “insulti” derivanti dall’introduzione di piccole cariche batteriche patogene. Quindi, se cuocere le verdure significa azzerare la presenza batterica (quella favorevole e quella sfavorevole al nostro organismo), preferisco di gran lunga mangiare verdura cruda.

Il Microbiota e i batteri

Il fatto di avere un microbiota sano è una condizione fondamentale per affrontare al meglio periodi di grande stress o adattarci a mutate condizioni ambientali. E’ scoperta recente che secondo alcuni studiosi sia attiva nel nostro intestino una collaborazione così stretta tra noi e il nostro microbiota da far ipotizzare uno scambio di materiale genetico.

Il processo, ben conosciuto per le forme di vita batterica, si chiama trasferimento genico orizzontale (TGO) e permette lo scambio di materiale genetico tra cellule non discendenti cioè non in rapporto “padre-figlio”. Questo spiega perché i batteri diventino molto rapidamente resistenti agli antibiotici.

Quando un batterio sopravvive ad un antibiotico non solo trasmette il suo DNA alle cellule figlie ma lo può trasferire anche ai batteri ad esso contigui. In questo modo la colonia diventa molto rapidamente in grado di adattarsi alle mutate condizioni ambientali massimizzando la propria capacità di sopravvivenza.

Bene, questo meccanismo sembra sia in funzione anche nel nostro intestino tra i batteri che costituiscono il nostro microbiota e le cellule del nostro organismo (intestino in primis). Sarebbe questo il meccanismo alla base di specifici processi di adattamento tipici di alcune popolazioni. Il Giappone, per esempio, il consumo tradizionale di sushi, tipicamente avvolto con le alghe nori, avrebbe messo in grado qran parte della popolazione di digerire questa alga. Infatti, insieme all’alga nori i giapponesi hanno mangiato per millenni anche un piccolo batterio (Zobellia galactanivorans) che produce l’enzima per digerire l’alga stessa. Il contatto prolungato con quest’ultimo avrebbe, grazie ad un processo di TGO, messo in grado l’intestino di molti giapponesi (dove è presente il Bacteroides plebeius ) di digerire l’alga nori, diversamente indigesta alla quasi totalità del restante genere umano.

Riferimenti e fonti:
Jan-Hendrik Hehemann, Gaëlle Correc, Tristan Barbeyron, William Helbert, Mirjam Czjzek and Gurvan Michel “Transfer of carbohydrate-active enzymes from marine bacteria to Japanese gut microbiota“;
La genetica del sushi

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Il Microbiota, un illustre sconosciuto – prima parte

DISCLAIMER E NOTE LEGALI
Lactobacillus casei

In un mondo fatto di slang alla moda microbiota umano è un termine che non suona granché bene, ugualmente diventarne dei buoni conoscitori credo che sia una delle chiavi principali per riappropriarsi (o mantenere) di uno stato di salute ottimale.

Quando ero piccolo, dopo una malattia per la cui cura erano stati impiegati antibiotici il mio pediatra mi prescriveva sempre una cura di fermenti lattici.

Intestino e microbiota

L’intestino è la sede del macrobiota

Solo tanti anni dopo ho capito cosa cercava maldestramente di fare quell’ometto simpatico e burbero al tempo stesso. Consapevole che uno degli effetti principali (non secondari) degli antibiotici è quello di azzerare la flora intestinale, quello che cercava di fare era correre ai ripari immettendo forzosamente grandi quantità di questi microrganismi nella speranza che accelerassero il processo di ricolonizzazione del lume intestinale.

Passati quarant’anni si è capito con molti studi che quella che una volta liquidavamo come flora intestinale in realtà è un organismo complesso, da qui il termine, ormai alla moda, di microbiota.
A titolo di massima chiarezza riporto la definizione pubblicata da Wikipedia alla voce microbiota umano:

“Il microbiota umano è l’insieme di microorganismi simbiontici che convivono con l’organismo umano senza danneggiarlo.”

Il grosso passo in avanti compiuto dalla scienza medica è stato quello di capire che ogni essere umano ha un suo specifico microbiota che si forma in relazione al nostro stile di vita e alla nostra alimentazione. Da questo si evince facilmente che non basta bere una fialetta di fermenti lattici per ottenere come ricompensa una flora intestinale in equilibrio. Alcuni studiosi sostengono infatti che una alimentazione scorretta “plasmi” per così dire un microbiota funzionale alla digestione di quel tipo di alimenti.

Per conseguenza la digestione e l’assimilazione di alimenti non particolarmente salutari farà produrre al nostro organismo una serie di sostanze (mediatori chimici e neurotrasmettitori) che influenzeranno in modo più o meno marcato l’umoralità della persona inducendola con più facilità a cibarsi proprio di quei cibi che servono al suo macrobiota per prosperare. Nel nostro intestino, sempre più spesso definito il nostro secondo cervello, infatti, prosperano migliaia di tipi diversi di microrganismi e quando qualcuno di questi aumenta spropositatamente la sua presenza è abbastanza normale attendersi che stimoli il nostro organismo a produrre tutti quei mediatori chimici che stimolino l’assunzione di cibi atti alla sua prosperità.

Ascoltare i propri bisogni alimentare per contribuire alla salute dell’intestino

Senza volersi spingere in affermazioni difficilmente dimostrabili quello che ho potuto provare su me stesso è che l’ascolto dei propri bisogni alimentari dovrebbe essere una cosa presa in seria considerazione. Si mangia pensando troppo e ascoltando poco. I nostri antenati (parlo delle tribù di cacciatori-raccoglitori) non avevano a disposizione holter metabolici, macchine ecografiche e laboratori di analisi. Avevano però piena consapevolezza del loro essere onnivori e delle necessità di alternare a seconda dei bisogni e delle capacità di approvvigionamento la propria alimentazione.

Ho già avuto modo di scrivere altre volte due concetti chiave del mio approccio all’alimentazione e non me ne farò scappare l’opportunità di farlo ancora.

Il primo concetto è che l’uomo è un animale “strutturalmente” onnivoro. Ce lo dice la sua dentatura, il suo stomaco e il suo intestino, né corto e adatto alla digestione delle proteine come quello dei grandi predatori, né lungo e adatto alla digestione delle fibre come quello dei grandi erbivori.
Il secondo concetto è che non tutto quello che introduciamo in bocca, mastichiamo e digeriamo diventa necessariamente una sostanza assimilata dall’organismo. Sfugge spesso il concetto che quello che inseriamo nel nostro organismo tramite la bocca rimane “altro” da noi fino a che un complesso sistema di enzimi, batteri e altre sostanze prodotte dal nostro organismo concorrono ad assorbirlo in forma semplificata.

Quello che ingenuamente si pensa è che una volta in bocca il cibo sia già parte di noi. Non esiste credenza più errata. Il nostro sistema digestivo è un tubo perfettamente impermeabile che si apre e permette il passaggio dei “nutrienti” solo ad alcune condizioni. Mantenere quindi la mucosa che riveste il nostro intestino in perfetta forma è quindi la strategia migliore che abbiamo per fare in modo che passi nel nostro sangue solo quello che ci è veramente utile.

L’intestino e l’aumento di allergie e intolleranze

La tendenza dilagante è che il nostro intestino stia, in media, diventando un “colabrodo”. L’effetto di questo processo, per dirla in parole semplici, è che le maglie della nostra rete intestinale si sono allargate permettendo il passaggio di sostanza (proteine non completamente digerite, batteri e sostanze tossiche) che il nostro organismo riconosce come intruse e attacca con specifici anticorpi. Fin qui il processo attivato sarebbe normale, i problemi iniziano quando questa permebilità permette il passaggio di molecole simili a quelle dei nostri stessi tessuti, verso cui, una volta contenuta l’aggressione dall’esterno, il nostro sistema immunitario riserva le sue attenzioni. Ecco che l’aumento di allergie, intolleranze e malattie autoimmuni dilaga.

Di queste cose si è occupato brillantemente un nostro connazionale, il Professor Alessio Fasano, illustre “cervello in fuga” che negli Stati Uniti ha potuto studiare approfonditamente la sindrome della permeabilità intestinale (Leaky Gut Syndrome) individuando una proteina, la zonulina, responsabile di regolare le giunzioni tra le cellule dell’epitelio intestinale.

Senza voler scendere in ulteriori dettagli scientifici per cui rimando direttamente alle fonti citate, ritengo che la miglior strategia per contenere gli effetti nefasti derivanti da una alimentazione “inquinata” da schifezze di ogni genere sia conoscere il nostro corpo, come funziona e, di conseguenza, dargli ciò che chiede.

Riferimenti e fonti:
Jose C. Clemente, Luke K. Ursell, Laura Wegener Parfrey and Rob Knight “The Impact of the Gut Microbiota on Human Health: An Integrative View“.
A. Fasano “Zonulin, regulation of tight junctions, and autoimmune diseases

Continua a leggere la seconda parte dell’articolo

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La dieta, questa sconosciuta – parte 10

DISCLAIMER E NOTE LEGALI

L’emoglobina glicata quindi ci svela quanti zuccheri in eccesso abbiamo introdotto con l’alimentazione.

In realtà la questione è un po’ più complicata di così perché esistono altre disfunzioni che potrebbero condizionare il livello di emoglobina glicata ma la semplificazione che sto per descrivere è comunque coerente e rispettosa delle conoscenze ad oggi consolidate in ambito medico. Dunque, se mangiamo molti zuccheri (specialmente ad alto indice glicemico) la glicemia nel nostro sangue si alza rapidamente e il nostro organismo inizia il processo di abbattimento di quest’ultima facendo produrre al pancreas insulina. Ora, poiché i recettori cellulari sensibili all’insulina non funzionano passivamente accade che se gli zuccheri nel sangue sono frequentemente alti i recettori si “assuefanno” allo stimolo insulinico sviluppando quella che si chiama resistenza insulinica.

Questo accade perché le cellule non possono assorbire zuccheri e altri nutrienti all’infinito e quindi per “difendersi” si assuefanno desensibilizzandosi all’insulina che per svolgere il suo compito deve essere in concentrazione sempre più elevata. Da questo ne consegue che, da un lato che le cellule del pancreas che secernono l’insulina si sfiancano, e dall’altro le cellule dei nostri tessuti assorbono sempre meno zucchero lasciando agl’altri due sistemi tampone il compito di drenare gli zuccheri in accesso. A questo punto è interessante capire che se non si è sportivi di medio-alto livello il sistema di trasformazione degli zuccheri in glicogeno ci aiuta poco in quanto le nostre scorte della preziosa molecola saranno quasi sempre piene. Ecco allora che buona parte del lavoro di abbattimento degli zuccheri nel sangue viene affidato al processo di glicazione dell’emoglobina.

Esistono soluzioni alternative a tutto questo? Evidentemente sì! Abbattere la quota di carboidrati nella nostra dieta è un’ottima strategia. Chi scrive non segue una alimentazione strettamente “low carb” ma vi può assicurare di aver pedalato per 200 km e oltre (per i più maliziosi: tutti in una volta) con apporti glucidici inferiori 30% del totale delle calorie assunte.

Attenzione però che passare da una dieta tradizionale dove la media dei carboidrati giornalieri si aggira su quote intorno al 60% ad una tendenzialmente “low carb” non è cosa da farsi con leggerezza. Personalmente tanti anni fa quando ho iniziato il mio percorso iniziai sostituendo gli alimenti a più alto indice glicemico con alimenti integrali (ebbene sì ho mangiato anche io i cereali!). Poi, scendendo con la quota di carboidrati è indispensabile risvegliare la nostra capacità di trarre energia dai grassi.

Esiste poi una interessantissima “nuova frontiera” che si prefigge l’obiettivo di aumentare la quantità e la vitalità dei mitocondri (sono le “centrali energetiche” delle nostre cellule) ma, come intuite, questi saranno gli argomenti di prossimi post.

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La dieta, questa sconosciuta – parte 9

DISCLAIMER E NOTE LEGALI

Un altro problema dei cereali è legato al loro stoccaggio e alla pratica di miscelarne tipi di diversa provenienza.

Il gioco è un po’ come quello del Made in Italy ovvero: “produco all’estero ma rifinisco in Italia e pertanto posso apporre l’etichetta sinonimo di qualità!”. Per le farine spesso i produttori miscelano farine nostrali e farine provenienti da paesi dove i controlli fito-sanitari non sono molto stringenti (Africa in genere) o di paesi che applicano politiche permissive verso gli OGM (tipicamente i paesi del Nord America) o ancora che hanno politiche sui prezzi particolarmente aggressive (di solito i paesi dell’Est Europa). Tutto questo fa sì che le farine presenti in varia forma (ricordatevi che anche molti insaccati contengono farina!) sulle nostre tavole siano di fatto di scarsissima qualità. Come se l’elevata presenza di micotossine non bastasse a stare alla larga da questi prodotti c’è un problema che definirei “strutturale” altrettanto dannoso (se non di più) per la nostra salute.

La raffinazione porta con se la perdita di tutta la parte “esterna” (germe e crusca) del chicco di grano ricca di fibre e micronutrienti. Questo fa sì che la parte rimanente chiamata scientificamente endosperma sia il componente principale della farina che finisce così per avere un profilo alimentare fortemente spostato verso i carboidrati al elevato indice glicemico. Cosa vuol dire tutto questo? L’indice glicemico (IG) è la proprietà di ogni alimento di far aumentare la glicemia nel nostro sangue in un periodo di tempo sempre uguale (tipicamente due ore). Il glucosio con indice uguale a 100 è il parametro rispetto al quale si posizionano tutti gli altri alimenti. Bene, i trasformati/derivati delle farine bianche si posizionano tutti tra quota 70 e 115; sì avete capito bene ci sono prodotti derivati dalle farine bianche che vi fanno alzare la glicemia più rapidamente del glucosio puro.

Come già scritto nei precedenti post l’aumento repentino della glicemia non è “tollerato” dal nostro organismo che si attrezza immediatamente per scongiurare i danni potenziali derivanti da un livello elevato di zuccheri nel sangue.

Abbiamo già visto che l’insulina prodotta dal pancreas e il glicogeno sintetizzato dal fegato cercano di abbassare quanto più possibile il livello di zuccheri nel sangue. E quando non ci riescono? In questo caso esiste un terzo processo “tampone” chiamato glicazione (detta anche glicosilazione non enzimatica). In questo caso le molecole degli zuccheri si legano ad una proteina dando origine ai tanto temuti AGEs (advanced glycation end products) che di fatto pregiudicano il normale funzionamento delle proteine o delle biomolecole originali. Di questi processi quello più conosciuto è la glicazione dell’emoglobina.

In particolare questo processo e l’esame che ne rileva il livello ematico, sono molto importanti per determinare il nostro “stile alimentare” e il numero (o meglio l’effetto) dei “picchi” glicemici a cui sottoponiamo il nostro organismo. Infatti l’emoglobina che normalmente trasporta ossigeno dai polmoni alle cellule e anidride carbonica da quest’ultime ai polmoni, un volta glicata perde la sua capacità di “legarsi” ai due gas. Questa di per se è una cattiva notizia ma, avendo l’emoglobina una emivita di circa 120 giorni, il livello della sua presenza nel sangue ci racconta cosa è successo nel nostro organismo negl’ultimi tre mesi.

I medici di solito usano l’esame dell’emoglobina glicata come discriminante per la diagnosi di diabete di tipo alimentare. In realtà anche valori sotto soglia ma comunque alti possono indicare che il nostro organismo è sottoposto con una certa frequenza a “picchi” glicemici.
Da questo capite che il discorso è ancora lungo e quindi non mi rimane che rimandarvi alle prossime puntate!

(Continua…)

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La dieta, questa sconosciuta – parte 8

DISCLAIMER E NOTE LEGALI

Una volta infatti la selezione delle sementi avveniva con un processo che si limitava ad accelerare la naturale selezione naturale. Facciamo un esempio. Su un appezzamento di terra coltivato a pomodori il contadino selezionava i semi partendo dalle piante che più di altre avevano dimostrato di adattarsi bene al terreno e alle condizioni climatiche più svantaggiose (freddo/caldo siccità/abbondanza d’acqua). Così facendo l’agricoltore si garantiva anno dopo anno un raccolto sempre più “resistente” alle condizioni ambientali del suo territorio. Un esempio millenario sono i vitigni che a seconda delle zone si sono sviluppati in tipologie anche molto diverse tra loro.

Fin qui abbiamo detto che d’accordo o meno con il mangiare cereali e legumi, quello che ha fatto l’uomo ha rispettato il corso della natura.
Dopo Hiroshima qualche “genio” notando che alcune piantine riuscivano a crescere anche in terreni al elevatissima contaminazione radioattiva, ha iniziato a pensare che esporre i semi a radiazioni fosse un buon modo per selezionare quelli più resistenti. Peccato però che anni dopo ci siamo accorti che quelle esposizioni mutavano geneticamente il seme in un modo che al quel tempo (parliamo degl’anni ’50-’60) non era indagabile con moderne tecniche genetiche.

Ora, siccome noi italiano siamo più furbi di tutti che abbiamo fatto? Nel 1974 (ma potrebbe essere anche il 1975) con un gruppo di ricercatori del CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare) abbiamo esposto grano duro della varietà “Senatore Cappelli” ai raggi gamma di un reattore nucleare per ottenere una mutazione genetica. Non contenti poi abbiamo incrociato il risultato con una varietà americana. Dopo tutte queste angherie genetiche la pianta del grano era diventata più piccola ma con caratteristiche di velocità di crescita e produttività molto più elevate. Era nato il grano “Creso” con cui oggi credo si produca non meno del 90% della pasta e dei prodotti di forneria venduta in Italia.

A tutto questo dovrebbero pensare coloro che ritengono che nella comunità europea siccome si vietano gli OGM siamo al riparo dalle manipolazioni genetiche. Almeno gli OGM, che per inciso aborro, alterano selettivamente alcuni geni, le nostre selezioni hanno alterato per decenni i geni in modo del tutto casuale basandosi su cosa “usciva fuori” piuttosto che su cosa c’era “dentro” al seme selezionato.

Ora, senza andare tanto per le lunghe e tornando all’alimentazione, va detto che gli scopi principali delle selezioni effettuate negli ultimi cento anni nel cereale più coltivato (il grano) sono state:

  • Aumento della produzione per ettaro quadro
  • Maggiore resistenza a intemperie e parassiti
  • Miglior lavorabilità del prodotto finito (la farina)

E, indovinate un po’? Secondo voi (lasciando da parte gli scempi ambientali delle colture intensive) con queste manipolazioni cosa è aumentato esponenzialmente nel chicco del grano? Bravi, proprio il glutine, la gliadina, la WGA e le lectine!

(Continua…)

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La dieta, questa sconosciuta – parte 7

DISCLAIMER E NOTE LEGALI

Eccoci dunque ai cereali.
Conoscete Antonio Fasano? No?
Peccato perché questo signore oltre ad essere uno dei tanti cervelli in fuga dal nostro paese è anche uno dei medici più esperti del pianeta in tema di permeabilità intestinale (leaky gut).

La permeabilità intestinale è quella sindrome che per dirla semplicemente allarga le maglie del nostro intestino permettendo il passaggio nel torrente ematico di sostanze (batteri, tossine e proteine mal digerite) che nel sangue di norma non ci dovrebbero stare.
Ora non voglio farla tanto complicata (come in realtà è) ma per adesso basta sapere che se ai batteri e alle tossine il nostro corpo cerca di far fronte con le difese anticorpali, alle proteine non ancora completamente demolite in singoli aminoacidi il corpo risponde in varia maniera tra cui, quella più pericolosa, è quella di sviluppare per queste proteine una risposta anticorpale. Peccato però che queste proteine semi-digerite sono molto simili a quelle prodotte da alcuni organi del nostro corpo. Quando termina la difesa (legittima) contro gli intrusi i nostri anticorpi cosa credete che facciano? Attaccano le nostre stesse strutture sviluppando quelle che vengono comunemente chiamate malattie autoimmuni.

Sempre il Dott. Fasano individua in alcune sostanze a base proteica come la gliadina e la WGA (wheat germ agglutinin – agglutinina del germe di grano) i principali responsabili della sindrome dell’intestino permeabile.
E indovinate dove si trovano queste sostanze in massima concentrazione? Bingo, nei cereali! Per la gliadina il grano poi, è proprio una bestia nera!

Ma le brutte notizie non si fermano a gliadina e WGA, tra gli altri responsabili dei problemi intestinali ci sono anche le lectine che si trovano, oltre che nei cereali, anche nei legumi.
Non sono solito demonizzare qualcosa, e infatti nel mio blog racconto come usare queste classi di alimenti minimizzandone gli effetti nefasti, ma continuo a sostenere che senza cereali si possa vivere proprio bene.

Inoltre, siccome a noi uomini moderni ci piace fare gli apprendisti stregoni con l’avvento dell’agricoltura abbiamo iniziato a fare i selezionatori di specie. Giusto per dare due pennellate su questo tema dirò che se in linea di principio quello fatto dagli agricoltori negli ultimi 10.000 anni ha rispettato i processi di riproduzione naturale, negli ultimi cento anni abbiamo raggiunto comportamenti (come genere umano intendo) a dir poco raccapriccianti, ma questo conto di raccontarlo nella prossima puntata.

(Continua…)

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